“La civiltà anglo-americana è il prodotto di due elementi perfettamente distinti, che altrove si sono combattuti: ‘spirito di religione’ e ‘spirito di libertà’”. Questa parole tratte da La democrazia in America di De Tocqueville, testo capitale per comprendere gli Stati Uniti, e dunque anche il nostro presente, ci introduce direttamente al cuore di L’inganno di Sofia Coppola. Che, al di là della questione del remake (del film di Don Siegel) e dell’adattamento (del romanzo di Cullinan), risiede nel ritrovare alle radici della nazione americana il rapporto, mai pacificato, tra ritualizzazione religiosa e libertà dei comportamenti: la prima orientata da un codice vincolante, i secondi dall’estemporaneità degli appetiti.
1864 Virginia, guerra di Secessione, un soldato nordista ferito viene raccolto e portato in un collegio femminile, dove sono rimaste quattro studentesse, una educatrice, e la responsabile del collegio (Martha Farnsworth, interpretata da Nicole Kidman). Il soldato è un mercenario, da poco sbarcato da una nave proveniente da Dublino. E il collegio non è solo un luogo di educazione e formazione ai saperi (lo studio del francese) e alle pratiche (cucire), ma sede di educazione per le ragazze ad un comportamento misurato, segnato da moralità, devozione religiosa e sublimazioni. Tratti che definiscono la ricorsività dell’esperienza in un ambiente chiuso e perimetrato. Le regole di condotta, che sono anche regole di disciplina, necessitano di uno spazio chiuso per potersi imporre, per segnare la scansione quotidiana dello spazio-tempo, gli habitus sia in quanto abiti (curati e ricercati) che come abitudini (suonare il pianoforte ecc.). Quando in un “dentro” così definito e serrato, come una casa del Sud degli Stati Uniti abitata da sole donne, giunge un uomo, un nordista, un mercenario (dunque sensibile al denaro e alle opportunità che la vita gli presenta) la situazione è destinata ad esplodere. Quando lo “spirito di religione”, che non è tanto un credo, quanto una pratica di vita imposta per controllare desideri e pulsioni, viene a contatto con lo “spirito di libertà” che, svincolato dalla scelta, non è che assecondamento di appetiti, allora la guerra (tra eserciti e individui) diviene lo sbocco naturale.
Il “fuori” precipitato nel “dentro” ne fa emergere il tratto di chiusura asfittica. L’arrivo dell’uomo ferito, che necessita di cure, scatena i desideri rimossi e le pulsioni represse delle donne, che trovano nell’uomo l’occasione per aprire il loro mondo, accogliere la forza vitale che lo investe e che accompagna il caporale McBurney (Colin Farrell). Ma la vita si impone in forma caotica, senza regole, assoldata da pulsioni e appetiti. E così l’uomo sedurrà tre donne, oltre alla matura Martha, l’istitutrice “urbanizzata” Edwina (Kirsten Dunst), subito attirata dalla possibilità di ritornare “fuori”, e l’adolescente disinibita Alicia (Elle Fanning).
L’uomo flirta disinvoltamente soprattutto con le tre (ma non lesina di compiacere anche le altre), che quando vedono crollare il loro “ideale”, l’immaginaria possibilità di aprire il loro mondo attraverso un uomo, per il gioco disinvolto di quest’ultimo, allora reagiscono duramente: lo gettano giù dalle scale, gli amputano una gamba, lo avvelenano. E il tratto di romance del film (categoria cardine, opposta al novel, per capire l’immaginario americano) piega verso il gotico e il nero, verso il “potere delle tenebre” che nella tradizione americana, così come sottolinea Melville, “deve la sua forza al richiamo che esso esercita sul senso calvinista dell’innata perversità e del peccato originale”.
Questo tratto “nero”, inscritto implicitamente in una vita senza vita, esplode a contatto con la miccia che funge da detonatore: l’incontro con il giovane nordista che determina lo scatenamento di sensi e sentimenti. E suscita nelle donne, perché ferito, anche un istinto materno di cura e protezione. Non può essere consegnato all’esercito sudista, se non al termine delle cure, altrimenti lo faranno morire. E con questa scusa le donne se lo tengono, cercando attraverso l’uomo il cuneo che garantirebbe loro il passaggio al “fuori”, alla libertà. Ma il passaggio è stretto, perché la libertà è anche libertà di tradire e dunque di non essere affidabile. A maggior ragione per chi si rende disponibile a farsi comprare; a farsi pagare per la sua capacità di uccidere.
Se il “romanzo nero appartiene all’ethos protestante” (Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, p. 153), è perché nella struttura gotica si ribalta il modello del romanzo sentimentale ed edificante, incentrato sul femminile morale e salvifico, che guida l’educazione maschile al senso del “limite”, per esempio attraverso il matrimonio (al fondo un modello “commedico”). Nell’atmosfera gotica, in questo caso espressamente Southern Gothic, il tenebroso restituisce invece un comportamento incapace di far accedere il personaggio ad una fase adulta. E dove l’idealizzazione dell’uomo (e la tempesta di pulsioni e sensazioni che accompagnano le ragazze al suo arrivo) diviene un modo per protrarre l’infanzia attraverso l’illusione. Quando l’illusione si infrange, scatta la rabbia per l’impotenza di chi si trova in uno stato adolescenziale senza sapere come superarlo: illudendosi di volerlo, ma avendone paura. E dunque la condizione adolescenziale viene confermata nel suo stato. Per cui, nell’impossibilità di “liberare la vita” in un amore corrisposto per la spudoratezzza e leggerezza dell’uomo, non resta che vendicarsi della vita stessa: amputando la gamba al soldato (evidente riferimento fallico) e condannandolo subito dopo alla morte.
L’arrivo del caporale evidenzia alle donne tutta la limitatezza soffocante della loro situazione, facendo emergere un “fuori” agognato/temuto e fino a quel momento semplicemente rimosso (tranne che da Edwina). La condizione di “innocenza colpevole” delle donne del collegio emerge allora in tutta la sua brutalità, scaricandosi sulla “colpevolezza innocente” del soldato, che flirta con tutte le ragazze che gli stanno intorno, passando da Edwina, che confessa di amare, alla giovanissima Alicia nel quale letto si infila, facendo scattare la gelosia vendicativa di Martha. La disinvoltura del caporale, che smentisce promesse e impegni subito dopo averli fatti, testimonia di un’adolescenzialità spinta verso un’irrefrenabile necessità di seduzione e di gioco. Tratti che individuano un’analoga incapacità di maturare, colta nell’uomo non come comportamento represso, ma come volubilità e compiacimento narcisistico. L’incapacità di maturare dell’uomo e delle donne (tratto tematico distintivo del cinema di Sofia Coppola) dà vita non tanto ad una regressione, ma ad un blocco traumatico che non riguarda solo i destini individuali dei personaggi coinvolti, ma quelli di un’intera nazione.
C’è solo un momento del film (non presente nella versione di Don Siegel), in cui sembra che il blocco possa essere superato, quando la pulsione distruttrice di un femminile segnato da moralizzazione repressiva e la fuga seduttiva del maschile (entrambe risposte alla paura di vivere) si superano nella scena di amore e di sesso tra Edwina e il caporale (poco prima dell’avvelenamento di quest’ultimo). L’accoppiamento tra “pari” (Edwina non è né l’adolescente in calore né la signora matura, ma la giovane coetanea da amare) come antidoto alla distruzione, all’isolamento, nella fluidità dell’abbraccio e dell’amplesso, come nelle immagini che ci restituisce l’Ishmael di Moby Dick, prendendo le distanze dall’ossessione di Achab: “Disciogliamoci universalmente nel latte stesso e nello sperma della benevolenza”.
Questo scioglimento non sarà che un frammento, il caporale sarà ucciso e la carica di distruzione repressa si manifesterà in tutta la sua “demonica” forza. Il corpo del soldato nordista, avvolto, sarà deposto immediatamente fuori dal cancello della grande casa. E l’ultima inquadratura da “fuori”, attraverso le grate del cancello, ci mostrerà le donne davanti alla casa, come in un carcere, dove sterilità, violenza e “demonico” riconsegneranno l’immagine di un’America incapace di generare, chiusa e repressa, segnata da un femminile la cui impossibilità di accoppiamento e la disillusione si trasformano in una invidia della vita. E dove l’uomo è incapace di orientare la sua spinta vitale e la sua azione, abbandonandola ad appetiti, pulsioni, compiacimenti senza futuro.
E la Natura, grande sovrana dell’immaginario americano, qui non è né la wilderness da civilizzare, né prende la forma edenica di un giardino curato, ma si plasma e plasma l’animo delle donne, il carattere “nero” della storia, con il flettersi minaccioso degli alberi sui personaggi, e dove il “fuori” del bosco assume l’aspetto inquietante di un ambiente da fiaba “nera”, con il pericolo di brutti incontri e di cattive azioni (raccogliere i funghi velenosi). E dove la luce naturale del sole e delle candele (restituita dalla fotografia di Philippe Le Sourd) sta lì a riconsegnarci una continuità tra sfondo e personaggi, arredi e abiti, luoghi e pratiche. Il personaggio, collocato in un ambiente domestico chiuso, circondato dall’inquietante perimetro di una selva, restituisce il tratto nero di un’America incapace di sottrarsi ad un stallo che diventa trauma: quello di una giovinezza che non sa accedere all’età adulta, a quella fiducia in se stessi che guidava l’uomo emersoniano:
Le loro virtù sono penitenze. Io non desidero espiare, ma vivere. La mia vita vale per se stessa (Diventa chi sei, p. 11).
La potenza di un film come L’inganno è quella di affondare nel cuore stesso della coscienza americana, nel momento della sua fondazione, colta dal lato del femminile, svincolato qui dal tratto rassicurante del sentimentalismo coniugale; e in una guerra di Secessione restituita attraverso un “gotico” che fa emergere lo stallo e il trauma come motori di una nazione paralizzata, capace solo di esporre il cadavere di un soldato nordista come traccia ed effigie di una sterilità lontana da ogni capacità di generare e immaginare il “nuovo uomo democratico”.
Riferimenti bibliografici
L. A. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1963.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.
N. Hawthorne, Tutti i racconti, a cura di S. Antonelli e I. Tattoni, Donzelli, Roma 2006.