Non ha più denti da latte Zain, deve probabilmente avere dodici o tredici anni. Sin dalla sua sequenza d’apertura, intorno all’incertezza circa l’età stessa del suo giovane protagonista (qui affidata al responso di un medico legale, poi ripetutamente ribadita), Cafarnao – Caos e miracoli inizia ad articolare i propri pensieri attorno al nesso che sussiste tra una situazione di estrema indigenza e una altrettanto infelice condizione di precarietà esistenziale. Se l’indeterminatezza anagrafica dovuta all’assenza di documenti che attestino la data di nascita di Zain sottolinea già di per sé un tema centrale del film (la negligenza di genitori, noncuranti del diritto dei propri figli di avere un’identità e una riconoscibilità sociale), questa stessa ambiguità si fa da subito segno metonimico di una scissione che a fondo contraddistingue lo stesso protagonista, diviso tra la sua immagine (il suo aspetto di bambino) e le sue azioni e comportamenti che sembrano già essere quelli di un adulto (“Giochi a fare l’uomo?” lo rimprovererà a un certo punto la madre). È quindi una sorta di prematuro apprendistato alla vita adulta quello che l’ultimo film di Nadine Labaki vuole rappresentare, attraverso un cortocircuito – tipico di molto cinema moderno (De Gaetano, Roberti 2019) – che, tra i poli dell’infanzia negata e di una maturità che deve essere acquisita in fretta dal bambino o che è stata mancata (nel caso dei genitori), si configura come la sua principale articolazione discorsiva.
Il contesto è quello di estrema povertà del Libano contemporaneo. Lo spunto narrativo fornito dalla denuncia che Zain muove contro i suoi stessi genitori – “per avermi messo al mondo”, dirà di fronte al giudice – permette di dare avvio alla lunga analessi che sta al centro del film. Di fatto, il flashback altro non è che il racconto di questa giovane vita che Zain avrebbe fatto a meno di vivere: una sorta di forzato e precoce percorso di formazione, il cui metaforico punto di partenza è quella sequenza dal valore proemiale in cui ci viene mostrato un unico momento di gioco e spensieratezza infantile. Al di là di queste immagini in cui scorrono ancora i titoli di testa, la vita di Zain appare caratterizzata esclusivamente da maltrattamenti, lavoro in strada, e una lotta quotidiana contro i suoi stessi irresponsabili genitori.
Dopo esser fuggito da casa, in un percorso fatto di analogie e differenze rispetto a un’infanzia normale che certo non appartiene alla sua sfortunata esperienza, la prima tappa di Zain è, emblematicamente, un parco giochi in cui egli – mentre osserva con distacco gli altri bambini che si divertono – può soltanto trovare rifugio e iniziare a cercare lavoro. Qui avviene l’incontro con l’immigrata clandestina Rahil e il suo figlioletto Yonas che, se da un lato permette alla regista di approfondire ancora il tema centrale che lega la povertà all’impossibilità di acquisire una riconoscibilità sociale e di vivere una vita dignitosa (fino al caso estremo della sorella di Zain, sposa bambina per la quale, non potendo accedere alle cure ospedaliere, l’assenza di documenti significa la morte), dall’altro approfondisce ancora il nodo legato al prematuro abbandono dell’infanzia da parte del protagonista. Nel rapporto e nelle cure che Zain deve riuscire a dare a Yonas per sopperire alle assenze della madre, si compie il definitivo accesso per il giovane libanese a una maturità che prende iconicamente le forme di una precoce genitorialità.È l’immagine di questi due bambini, del piccolo Yonas in braccio al poco più grande Zain, a dominare lungamente un film che, tuttavia, sembra astenersi dal fare i conti con il fatto che al cinema, insegna Truffaut, «il bambino è un elemento patetico al quale il pubblico è subito sensibile. Per cui è molto difficile evitare la sdolcinatezza e il compiacimento» (Truffaut 1988, p. 32). Proprio questo risulta essere dunque uno dei punti sui quali il confronto tra il film di Labaki e i grandi racconti d’infanzia della modernità – nonostante la regista citi come fonti di ispirazione più o meno consapevoli il neorealismo, lo stesso Truffaut, ma anche il cinema iraniano – non può che risultare inclemente.
In particolare, sorge spontaneo il paragone con un film come I quattrocento colpi (1959), suggerito – oltre che dalle molteplici e specifiche correlazioni tematiche (il racconto di un’infanzia difficile, il rapporto complicato con i genitori, la fuga da casa, l’arresto) – dal confronto tra i due finali: un’assonanza visiva tra le due opere che tuttavia, allo stesso tempo, rivela di uno scarto che ha direttamente a che fare con una più profonda consapevolezza dell’essenza stessa dell’immagine filmica, di quell’intrinseca dualità per cui questa è sempre e allo stesso tempo frutto di una costruzione autoriale e documento del reale.
Nel conclusivo fermo immagine sul volto sorridente del piccolo Zain, non c’è traccia della potenza (che è quella del fuori campo, della vita) che chiude il film di Truffaut: la riproposizione del medesimo procedimento tecnico rimane, forse, una vacua citazione che non riesce restituire il senso profondo di quello stop-frame attraverso il quale il capolavoro della Nouvelle Vague «si conclude, [mentre] l’avventura ideale di Antoine, no» (Barbera, Mosca 2002, p. 31). Se lo sguardo angosciato di Doinel «invade lo schermo per interrogare gli spettatori» (ibidem), il fermo immagine sul sorriso di Zain – sorriso che il film, nella sua assenza dal volto del protagonista, aveva accuratamente predisposto come figura privilegiata di questa infanzia negata – è invece narrativamente giustificato dallo scatto fotografico destinato al tanto agognato documento d’identità, conciliante conclusione verso la quale il film aveva mostrato di tendere sin dalle sue prime immagini.
È dunque al di là dei – per quanto scontati – giudizi di valore sulle singole opere, che la differenza tra Cafarnao e i modelli di riferimento si fa irriducibile e riguarda, più a fondo, qualcosa che ha a che fare con la costitutiva relazione tra l’immagine e la vita, tra le forme cinematografiche e il reale che queste vorrebbero rappresentare: con la valorizzazione, in definitiva, di un rapporto che qui – in un film che vorrebbe farsi carico di una qualche forma di denuncia sociale – viene colpevolmente a mancare. “Il mio compito è quello di individuare il problema, di esporlo, di mostrare ciò che è la realtà, la situazione” ha dichiarato Labaki a proposito del suo ultimo lavoro.
Ma la forza testimoniale dell’immagine non può semplicemente risiedere nella supposta documentarietà di alcune scelte stilistiche (la macchina a mano o l’utilizzo di non attori), ancor più se queste vengono calate all’interno di una più ampia tendenza estetizzante (ben rappresentata da un certo uso del ralenti, come da una colonna musicale particolarmente drammatica) che finisce per destituire quell’istanza attestativa che, sicuramente, deve aver abitato le intenzioni dell’autrice.
Come se anche dietro la macchina da presa la regista di Baadbat non riuscisse a dismettere i panni dell’avvocato di Zain che lei stessa interpreta nel film, il suo tentativo di denuncia si perde in un’artificiosità retorica che non sfugge a un certo grado di sensazionalismo e spettacolarizzazione, precludendo per lo spettatore l’accesso a una più profonda presa di coscienza. Nonostante i buoni propositi, Cafarnao finisce per accogliere una molteplicità di contenuti politici e tuttavia – per riprendere un celebre pensiero di Godard – non riesce a farsi film autenticamente politico, tutto assorbito all’interno di un regime discorsivo finzionale che ne regola in profondità i processi formativi e le dinamiche di configurazione del senso.
Riferimenti bibliografici
A. Barbera, U. Mosca, François Truffaut, Il Castoro, Milano 2002.
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, L’infanzia (in)educata. Conversazione con Gianni Amelio, in “Fata Morgana”, n. 35 (2019), pp. 9-18.
F. Truffaut, Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia 1988.