Soverchiato da una profonda nostalgia, per tradurre in azione il dolore della perdita, decido di sprofondare nelle valli tanto amate da Otar. Qui il letto dell’Orcia attraversa colline rotonde, quasi intangibili, verticalmente risolte dai cipressi, punte di spillo che si aggrappano al cielo. Spruzzate abbondanti di macchia boschiva segnano poi il passo di un itinerario devozionale, quello percorso da Caterina da Siena, la donna che più di altre si è imposta al potere ecclesiastico e temporale, ostentando la sua santità: «Egli ha il capo chinato per salutare te, ha la corona in capo per ornare te, le braccia stese per abbracciare te, i piedi confitti per stare con te» (Santa Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 128) queste le parole suggerite dal cristo ligneo che veglia sull’altare dell’Abbazia di Sant’Antimo, luogo al centro del meraviglioso film Un piccolo monastero in Toscana (1988). Lo sguardo attento di Ioseliani si è posato proprio sui “piedi confitti” di quel Cristo ligneo, che Caterina ha considerato l’espressione della volontà del salvatore di rimanere tra gli uomini. Quali uomini? Quali donne? In uno stacco di montaggio arguto, quasi fosse una sintesi folgorante di Dovženko, insegnante di Ioseliani a VGIK (Vsesojuznyj Gosudarstvennyj Institut Kinematografij, Istituto statale di cinematografia dell’Unione Sovietica) di Mosca, Otar accosta i piedi del Cristo a quelli della borghesia di Montalcino. Scarpe eleganti, in pelle laccata, all’uscita dalla messa. In una soluzione di montaggio si materializza la contraddizione tangibile dello spirito pauperistico di Caterina e ancor prima di Francesco.

L’istinto sarcastico di Otar costringe la vocazione al dinamismo, lasciando che il volo spirituale si schianti a terra, costringendolo a misurarsi con il mondo. Su questa direttrice il film trova la sua profondità: la vita di cinque monaci francesi, chiamati a rivitalizzare un importante monastero dalla storia millenaria, si dipana tra il paese di Castelnuovo dell’Abate, abitato prevalentemente da una comunità contadina, e Montalcino, cittadina che tra antica nobiltà e nuova borghesia è avanguardia di una trasformazione predatoria, dettata dal mercato internazionale. Queste contraddizioni deve aver captato il direttore della fotografia del film Lionel Cousin, quando ha suggerito di incentrare il film sul monastero, e non sul senso del dionisiaco, come inizialmente perorato da Ferruccio Marotti. Lionel, purtroppo recentemente scomparso, proprio a Cupano, frazione a pochi chilometri dall’Abbazia di Sant’Antimo, aveva deciso di produrre il suo brunello e conoscendo bene Otar, sua la fotografia di Sept pièces pour cinéma noir et blanc (1983), Un piccolo monastero in Toscana e, insieme a Julie Grünebaum, del più recente Chantrapas (2010), sapeva che quei cinque monaci sarebbero stati una cartina di tornasole per comprendere un piccolo mondo, specchio di un momento importante della società italiana. In quella piccola dimensione Otar si è immerso come sapeva fare, comprendendo in modo istintivo e profondo l’essenza dei suoi abitanti. Ioseliani non è mai stato uno straniero, ovunque andasse le barriere della lingua si dissolvevano a favore di una comunicazione magica, fatta di gesti e sguardi. Questo è successo in quel fazzoletto di Toscana, così come nei paesi baschi filmati in Euskadi été 1982 (1983), o in Giappone, paese molto amato, come testimonia la collezione di kimono di cui è sempre andato fiero.

In fondo è possibile rintracciare un’affinità profonda tra gli elementi contrappuntistici del suo cinema, quelli incarnati da personaggi sullo sfondo, che quasi fossero in un quadro di Bruegel aprono a dimensioni eccentriche, e alcune opere di Shōhei Imamura, come Acqua tiepida sotto un ponte rosso (2001). Proprio in un momento incidentale di quel film, si consuma una scena che sembra provenire dritta da un film di Ioseliani: un maratoneta africano, spezzando la routine dell’allenamento, approfitta di un momento di distrazione del suo allenatore giapponese per pescare i pesci di un fiume, lanciando una rete a strascico. Dopo il rimbrotto dell’allenatore, il maratoneta riprende la sua corsa per poi svanire, per sempre. Questa stessa profondità di dettaglio in Un piccolo monastero in Toscana è affidata a una sublime partitura sonora, che ai canti gregoriani e a quelli popolari dei Cardellini accosta elementi diegetici della quotidianità. La voce di Maurizio Seymandi che lancia un brano di Eros Ramazzotti, nel programma Superclassifica Show, ci descrive il tempo sospeso delle domeniche italiane negli anni ottanta in modo inequivocabile. Questo passaggio testimonia la capacità di Ioseliani di sintonizzarsi con un intero paese, quasi ne avesse sempre fatto parte.

L’osservazione sonora è sempre stata al centro della sua prassi, a Parigi non c’è stata manifestazione che Otar non abbia registrato. A volte quei frammenti sonori hanno oltrepassato i confini dei suoi film, testimoniando l’articolazione di una lingua che si compone del contributo di una comunità di cineasti. Così in Secret défense (1998) di Jacques Rivette, il personaggio interpretato da Sandrine Bonnaire apre una cassetta della posta e viene investista dal vociare delle proteste di piazza che si interrompono bruscamente quando la cassetta viene richiusa. Quella registrazione è parte dell’archivio di Ioseliani, Rivette, suo caro amico, si è appoggiato alla sua capacità di osservazione per far irrompere il mondo nelle trame del proprio cinema.

Il segno, che sia sonoro o visivo, è un elemento portante di una tessitura complessa che compone un tappeto filmico, fatto di tanti fili intrecciati, come testimonia l’intera filmografia di Ioseliani. Otar è sempre stato un grande tessitore e a volte i suoi fili giungono da molto lontano. Proseguendo il mio viaggio rintraccio l’origine remota di uno di questi: la vetrata dell’occhio absidale del duomo di Siena, realizzata tra il 1287 e il 1288 da Duccio di Buoninsegna. L’opera è animata dal “narrare gentile” del suo autore, profondamente influenzato dalle sensibilità di Giotto. La sepoltura, l’assunzione e l’incoronazione della Vergine si articolano insieme ai santi protettori di Siena, con la semplicità iconografica che ha sempre nutrito l’immaginario di Ioseliani.

Da una parte stanno quindi Duccio di Buoninsegna e Giotto, probabilmente il suo pittore preferito, tanto da obbligare tutti i suoi amici a visitare la Basilica superiore di Assisi con il ciclo delle Storie di san Francesco, dall’altra Niko Pirosmani, che nei primi del Novecento regala alla Georgia un distillato naïf della natura più autentica del paese. Nel mezzo, come una cerniera tra i secoli, Bruegel, e la sua capacità di testimoniare il lavorio ininterrotto della vita. Un narrazione anti drammatica, che relega gli episodi salienti sullo sfondo, come nel Paesaggio con la caduta di Icaro, dove il personaggio mitologico è in secondo piano, un puntino con le gambe dimenanti, mentre il mondo scorre inesorabile. Eloquenza mirabile che ritroviamo negli storyboard di tutti i film di Ioseliani. Grazie al talento della figlia Nana e a quello del marito Nugzar Tarielashvili, i film di Otar sono esistiti prima di tutto sulla carta, dove con una rara grazia prende forma il suo personalissimo “narrare gentile”. Alcuni sono esistiti solo sulla carta, ma non per questo vanno considerati come dei film abortiti. Louis et ses sujets (1989) scritto da Ioseliani insieme a Gérard Brach e Jacques Lévy, incentrato sulla vita di corte del Re Sole, fonte di ispirazione diretta delle opere di Molière, vive nei suoi disegni vibranti, ritagliandosi a pieno titolo un posto nella sua filmografia.

Con un balzo nel passato, come fossimo nelle tavole di uno dei suoi storyboard, mi raffiguro la piccola sagoma di Santa Caterina che si immerge nella vasca termale posta al centro di Bagno Vignoni, dove prosegue il mio viaggio. Qui ha preso forma la Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, il rito che deve compiere il protagonista è quello di portare un cero acceso da un capo all’altro della vasca. Mi viene in mente una differenza fondamentale tra quella nostalgia, sublime scalino verso l’elevazione spirituale, e l’altra, consumata da Otar Ioseliani, legato a Tarkovskij da una sincera amicizia. La prima ha un’aspirazione metafisica, la seconda è consustanziale all’atto del vivere: “Bruciare il legno della propria esistenza” avrebbe detto Otar. Esistere per dissolversi. Per questo Ioseliani non si è mai considerato un esule che dovesse proiettare la sua nostalgia su una terra d’appartenenza, ormai lontana. Al contrario ha sempre rifiutato lo statuto di rifugiato offertogli dal governo francese per conservare il passaporto sovietico e in seguito georgiano. La Georgia è sempre stata un paese in cui fare ritorno e non un luogo dell’anima a cui aspirare.

Forte di questa convinzione nel girovagare tra diversi paesi, Otar sarebbe voluto tornare nella provincia senese per girare il seguito di Un piccolo monastero in Toscana, mosso dalla curiosità di vedere come la vita di quei monaci sarebbe cambiata ad anni di distanza. Se una legge non scritta del viaggio è quella di concludersi con un approdo, il mio allora è proprio l’abbazia di Sant’Antimo. Ormai i monaci non ci sono più, dopo la morte dell’anziano abate si sono dispersi, alcuni sono tornati in Francia. Al loro posto sono arrivate quattro suore messicane, che si prendono amorevolmente cura del monastero. D’un tratto immagino l’espressione di Otar nel trovarsi davanti le sorelle messicane, i suoi occhi accesi dalla curiosità e da un pizzico di sarcasmo. Già sento i canti dei mariachi mescolarsi alle partiture gregoriane. Niente scompare ma tutto si trasforma e la mia nostalgia diventa improvvisamente “otariana”, cancellando lo sconforto, mentre agli occhi umidi si sposa un divertito sorriso.

Riferimenti bibliografici
L. Barcaroli, C. Hintermann, D. Villa, a cura di, Addio terraferma: Ioseliani secondo Ioseliani, introduzione di E. Ghezzi, Ubulibri, Milano 1999.

Otar Ioseliani, Tbilisi, febbraio 1934 – Tbilisi, dicembre 2023.

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