Quando la terra sarà un reperto archeologico,
non ci sarà più differenza
tra una foto pubblicitaria della Coca Cola,
un reportage di guerra e un ritratto.
Oliviero Toscani

Oliviero Toscani è stato il sismografo di un’epoca che sta sparendo, in cui la dimensione culturale pop era arena di discussione e riflessione, un mondo che diventava globale ma non era ancora del tutto interconnesso. La sua espressione professionale ha preso le mosse da collaborazioni con “L’Europeo”, “Elle”, “Vogue”, solo per citare alcune testate, fino a giungere alla direzione di “Colors. Una rivista che parla del resto del mondo”, capolavoro d’intreccio visivo e testuale, sintesi della sua passione per un mondo editoriale che parlava di cultura in senso nuovo.

Il ruolo che Toscani ha rivestito nella cultura visuale e comunicativa del nostro tempo può essere sintetizzato attraverso alcune coordinate: corpi, colori, denunce, riflessioni, sperimentazioni, temi che si declinano visivamente in uno spazio fotografico oggettivo, limpido, implacabilmente capace di comunicare una cultura del cortocircuito. Nel sistema socioculturale degli anni ottanta e novanta le sue immagini sembravano stridere come un’unghia sulla lavagna, in esse c’era, e c’è ancora, la voglia di esprimere la condizione umana in maniera esplicita e di farlo fin nelle sue più viscerali contraddizioni. Quella da lui descritta era una società che stava affrontando enormi cambiamenti, e ciò lo ha portato all’adozione di una strategia di mediatizzazione pubblicitaria di questioni delicate.

Si sente spesso citare il suo motto secondo cui per spiegare certe cose le parole non bastano, in realtà forse è tutto il contrario: Toscani ha costantemente lavorato su immagini e parole, queste ultime potevano essere sì stampate sui messaggi visivi sotto forma di slogan, ma mai come nel suo caso si è “tanto parlato” del suo lavoro, e non solo per via dei fiumi d’inchiostro che a proposito delle sue campagne scorrevano copiosi sulla stampa mondiale, ma anche per il discorso sul visivo da lui stesso messo in atto. I temi affrontati nel suo lavoro si collegano strettamente agli ambiti degli Studi culturali, la cui nascita e diffusione non a caso coincidono con la carriera di un fotografo che intreccia le dinamiche di un Made in Italy globalizzato con la sperimentazione mediale, questioni politiche, riflessioni sull’identità di etnia, di genere e sul ruolo dei consumatori.

Il suo primo cortocircuito verbo-visivo è passato alla storia come Il folle slogan dei Jeans Jesus. È stato lo stesso fotografo a suggerire a Robe di Kappa la produzione di blue-jeans e di battezzarli con quel nome proprio. L’idea dell’immagine è sua, e non sarà stato difficile per Emanuele Pirella e Michael Goettsche associare un paio di provocanti hot pants allo slogan che avrebbe fatto passare alla storia quel manifesto: Chi mi ama, mi segua. Com’è noto anche Pasolini si concentrò su questo manifesto; grande interprete, tra le altre cose, del «lessico proprio degli studi culturali, dei media e più in generale delle comunicazioni di massa nonché dei loro effetti sociali sulla cultura italiana» (Cometa 2019), Pasolini scrisse sul “Corriere della Sera” che questo annuncio dimostrava come la laicità fosse un «nuovo valore, nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile» (Pasolini 1973).

In questo contesto è già visibile quella che diventerà la futura strategia di Toscani: il cortocircuito come stile espressivo e stimolo del dibattito pubblico. Le campagne Benetton degli anni ottanta e novanta hanno costituito un’audace mossa nel mettere in questione il tradizionale sistema della comunicazione pubblicitaria. Agganciare temi di politica sociale al Made in Italy per diffonderli a livello globale ha significato proporre ai consumatori un’attività che era loro estranea: la riflessione. Ciò ha permesso al brand di fornire a tale soggettività, trattata fino a quel momento come obiettivo passivo della banale retorica dei consigli per gli acquisti, una nuova aura.

Forse Marshall McLuhan, che scomparve nel 1980 e che nel 1951 aveva pubblicato La sposa meccanica, uno dei testi più caustici nei confronti della nascente industria dell’advertising, avrebbe gradito le campagne nate dal sodalizio italiano. Nel 1993 Gilles Lipovetsky salutò con favore le campagne Benetton, perché – nel momento in cui le avanguardie artistiche avevano smesso di fare scandalo – queste utilizzavano il mezzo espressivo più funzionale al capitalismo per provare a svegliare gli stessi consumatori. I suoi soggetti apparivano su sfondi minimalisti, a una distanza calibrata in modo da mostrare appena i colli alti e le trecce delle maglie in lana, ma senza mai nulla togliere all’esaltazione di volti e capelli.

Il lavoro nato dal sodalizio con la casa di moda trevigiana è un esempio di come egli sia stato in grado di intercettare la maggior parte delle istanze culturali della sua epoca, che coincidono, come si accennava, coi temi cardine degli studi culturali, che esistono in senso moderno «almeno da quando […] si è passati alla traduzione dei fatti culturali, comunque la si voglia intendere: come incontro e come scontro con l’altro, come assimilazione dell’altro, come creazione di un linguaggio comune, come rivendicazione delle differenze» (Cometa 2019).

Uno dei temi chiave di questi messaggi è quello dell’identità etnica. Toscani accostava i tratti somatici e i più svariati fototipi, esaltava il liscio piatto dei capelli orientali e il crespo voluminoso delle acconciature afro. Il concetto di multietnicità veniva messo in prima pagina da una social catena di gente che, con lo sguardo rivolto alla macchina, celebrava la fratellanza attraverso l’enfasi sulle differenze. L’asettico sfondo lascia emergere, gestalticamente, l’essenza bio-culturale dei suoi soggetti, che sono ragazzi, anziani, persone con disabilità, gente che ride, nasce, muore, scappa, soffre, ama. I suoi soggetti erano spesso vestiti del classico tricot colorato, ma anche svestiti.

L’immagine-icona del suo lavoro potrebbe essere individuata nell’adamitico abbraccio della serie Nudi come (2018), che mostra, pur nelle variazioni cromatiche, un gruppo di giovani di profilo, ciascuno definito attraverso l’uniformità della propria pelle. Superficie di confine tra interno ed esterno, la pelle è la più evidente espressione dell’identità, è il mezzo comunicativo più elementare e vulnerabile. In questa foto la luminosità di ciascun soggetto è messa in risalto dalla vicinanza dell’altro per contrasto tattile, questi giovani sono fieri di mostrarsi nel loro vestito più profondo, essenziale, unico. Simili volti sembrano richiamare i ritratti del Fayum, soprattutto se letti alla luce di ciò che John Berger scrisse in una penetrante analisi degli antichi dipinti: «Immagini di uomini e donne che non lanciano nessun appello, non chiedono nulla, ma dichiarano vive se stesse e chiunque le guardi! Nella loro fragilità incarnano un rispetto di sé dimenticato. Confermano, malgrado tutto, che la vita era ed è un dono» (Berger 2003).

Toscani non cercava codici segreti per comunicare, aspirava semmai a ciò che Bruno Munari definì semplicemente comunicazione visiva, in opposizione alla confusione visiva. Egli è stato un autore pop immerso in una cultura sempre più caotica, e con la sua spontaneità è stato in grado di mettere un po’ di ordine nella raffigurazione mediale di una società che era passata dalla crisi della rappresentazione al trionfo dell’immagine. La vera eredità del suo lavoro sta già nella quota di mente di ciascuno di noi, nell’alfabetizzazione visiva che chiunque abbia vissuto da qualche parte nella timeline della seconda metà del secolo scorso nell’Occidente che si apriva alla globalizzazione ha accumulato, implicitamente, senza sforzi, passeggiando per le strade delle città, lasciandosi abbagliare dai manifesti ove si stagliavano i suoi variopinti soggetti.

All’interno della bolla culturale fatta di pubblicità, moda, identità di genere e di etnia, crisi politiche e ambientali, i soggetti della flânerie visuale tra primo e secondo millennio si sono imbattuti nelle sue immagini e – a differenza di molte altre – hanno riflettuto sulle tematiche che queste miravano a sollevare, hanno dibattuto e preso posizione, le hanno osannate o estromesse dall’universo del fotografico. Questi soggetti non possono negare che siamo i figli di una temperie culturale che oggi ha perso uno dei suoi più acuti sismografi.

Riferimenti bibliografici
J. Berger, Sacche di resistenza, Giano, Varese 2003.
M. Cometa, Come si studia la cultura. Pratiche, tattiche e forme di resistenza, Palermo University Press, Palermo 2019.
M. McLuhan, La sposa meccanica. Il folklore dell’uomo industriale, SugarCo, Milano 2020.
P.P. Pasolini, Il folle slogan dei jeans Jesus, in “Corriere della Sera”, 17 maggio 1973.
O. Toscani, Ciao mamma, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995.

Oliviero Toscani, Milano, 28 febbraio 1942 – Cecina, 13 gennaio 2025.

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