Non siamo là per servire noi stessi. Mi piace recitare con l’autore, mi piace pensare che sicuramente ha recitato anche lui le battute che ha scritto e mi chiedo se riuscirò mai a pronunciarle come lui avrebbe voluto. Bisogna fare come se l’autore fosse il vostro primo spettatore (Piccoli in Jacob 2015, pos. 974-975)

Così cinque anni fa Michel Piccoli, «mostro sacro del cinema europeo» (La Repubblica) dalla filmografia vasta e variegata, cercava di illustrare all’amico Gilles Jacob la sua idea di recitazione, fondata su una totale messa a disposizione del proprio corpo e della propria voce alla volontà e allo sguardo del regista. Non è un caso che, nelle numerose interviste rilasciate nel corso di una lunghissima carriera – cominciata negli anni ’50 sul palcoscenico del Théâtre de Babylone e terminata nel 2014 sul set di Le goût des myrtilles (De Thier) –, la «leggenda del cinema francese» (Il Sole 24ore) non utilizzi mai il termine metteur en scène, preferendogli quello di auteur, inteso come l’artefice ultimo della produzione del senso e dell’emozione.

Eppure, nonostante questo continuo rivendicare la propria natura di attore-materiale – “Sono la marionetta di Marco Ferreri” ha detto a proposito di Dillinger è morto (Ferreri, 1969) –,  Piccoli è stato molto più di un semplice strumento da manipolare, inquadrare, vestire e truccare. Il lungo apprendistato teatrale, arricchito dal confronto con i testi di Ionesco e impreziosito dalla collaborazione con Peter Brook (Il giardino dei ciliegi, 1981), ha permesso a quest’interprete «dalla voce bellissima» (Marco Bellocchio) di colmare con la tecnica, la sensibilità e l’intelligenza le lacune fotogeniche di un corpo tra i meno caratterizzati – e forse per questo anche tra i più duttili – del cinema francese.

Nel 1963, quando – con il personaggio di Paul Javal (Il disprezzo, Godard) – raggiunge la notorietà internazionale, il trentottenne Piccoli non ha né la bellezza inquieta di Jean-Louis Trintignant né il vigore muscolare di Jean-Paul Belmondo. C’è qualcosa di asessuato nel portamento elegante e nella compostezza dei suoi gesti, sempre misurati e precisi, anche quando si tratta di accendere una sigaretta, annodare una cravatta o imbrattare di fango il corpo di Catherine Deneuve (Bella di giorno, Buñuel 1967). Qualcosa che evoca l’archetipo del maschio civilizzato e in qualche modo de-virilizzato, in perfetta opposizione alla manhood animalesca e primitiva simboleggiata, negli anni ’70, dal giovane Depardieu.

Il viso è quello di un uomo qualunque, privo di elementi in grado di pungere, come direbbe Roland Barthes, l’occhio dello spettatore: se la mascella è sottile, la fronte è stempiata e gli occhi sono piccoli, quasi interamente oscurati da sopracciglia talmente folte da disegnare delle zone d’ombra perfette per esprimere quel senso di mistero proprio di molti dei suoi personaggi, spesso tanto potenti quanto sfuggenti. Tra le decine di etichette incollate dalla stampa a poche ore della morte, quella di «ieratico e misterioso» (Mariarosa Mancuso) è forse una delle più azzeccate, e in questo senso Piccoli si potrebbe definire una sorta di epitome del moderno, di un moderno inteso come sospensione del senso, intervallo tra l’essere (l’attore) e l’apparire (il personaggio). “Ti guardo, ma non so a cosa pensi”, diceva le petit soldat a Anna Karina nell’omonimo film di Godard (1962). Allo stesso modo è impossibile sapere a cosa pensano Paul Javal (Il disprezzo), Glauco (Dillinger è morto) e Pierre Berard (L’amante, Sautet 1970)  mentre contemplano, in silenzio, le forme dei personaggi interpretati da Brigitte Bardot, Anita Pallenberg e Romy Schneider.

Recitare, nel cinema della modernità, non significa più soltanto imitare gesti e movenze di un personaggio immaginario, ma anche esibire davanti alla cinepresa l’opacità di un corpo che, anziché agire o parlare, si limita semplicemente a guardare le azioni o ad ascoltare le parole altrui. Anche in questo caso un frammento della conversazione dell’attore con Jacob ci viene in aiuto:

Bisogna imparare a restare semplicemente fermi accanto al partner. Spesso si è in scena senza dire nulla, le parole degli altri vi circondano ed è importante che il vostro silenzio non risuoni troppo. Saper ascoltare è una delle cose più difficili per un attore, saper ascoltare il partner senza divorarlo (Piccoli in Jacob 2015, pos. 936).

Questo, in effetti, fanno tutti i personaggi di Piccoli: guardano e ascoltano. E anche quando ascoltano sembrano sempre altrove, lontani, perduti in un «vago senso di latitanza» (Jandelli 2013, p. 134) espresso semplicemente con un sorriso accennato o con un impercettibile contrazione delle sopracciglia. La latitanza rispetto al personaggio si traduce talvolta – per esempio in Il disprezzo – in una recitazione volta più alla citazione che all’interpretazione: anziché imitare in modo naturalistico la nevrosi del personaggio di Moravia, Piccoli – che per corporatura e portamento assomigliava tantissimo a Godard – si limita a indossare un cappello simile a quello portato in Un dollaro d’onore (Hawks, 1959) da Dean Martin, pronunciando esplicitamente – nella scena di conversazione in bagno – il nome della star hollywoodiana: entrambi i personaggi in questione – Paul e Dude – simboleggiano del resto un maschio fallimentare, vile e perdente.

La capacità di esprimere apatia, indifferenza e distanza senza apparentemente “fare nulla” ha sedotto non solo Godard e Ferreri, ma – tra gli altri – anche Luis Buñuel (da Il diario di una cameriera, 1963, a Il fascino discreto della borghesia, 1974), Claude Chabrol (L’amico di famiglia, 1973), Alain Cavalier (La chamade, 1968), Jacques Rivette (La bella scontrosa, 1991), Leos Carax (Rosso sangue, 1986) e soprattutto Claude Sautet, che ha sfruttato in senso espressivo il contrasto tra il lavoro in levare dell’interprete e l’enfasi melodrammatica di Romy Schneider. Si riveda, a questo proposito, la scena di conversazione in auto tra Pierre e Hélène nella prima parte di L’amante. Allo sfogo della partner, che lo accusa della medesima inettitudine rimproverata da Camille a Paul in Il disprezzo – “Tu m’aimes parce que je suis là, mais s’il faut traverser la rue pour me rejoindre tu es perdu. T’es comme un vieux” –, Paul reagisce senza far trasparire la minima emozione.

Altrettanto inetti si dimostrano Max Pellissier, che paga una prostituta solo per guardarla (Il commissario Pellisier, Sautet, 1971) e Charles, l’aristocratico che cede la moglie all’amante attendendone pazientemente il ritorno (La chamade), mentre l’ingegnere di Ferreri (Dillinger è morto) passa dalla cucina al bricolage e dal sesso all’omicidio senza mai alterare il paesaggio di un volto rigido come le maschere mostrate nel prologo del film. Dopo aver mostrato, sotto lo sguardo di Ferreri, un’inedita realtà fisiologica – dal petto villoso (Dillinger è morto) al vomito (La grande abbuffata, 1973) –, Piccoli ha trovato forse in Marco Bellocchio e Nanni Moretti i cineasti più abili nell’aiutarlo a raffigurare le microfratture nascoste negli spettri del Potere. Sia il papa dimissionario (Habemus Papam, 2011) che il giudice celibe (Salto nel vuoto, 1980) esprimono infatti, con improvvise alterazioni della voce (il papa) o compulsive azioni fisiche (il giudice), il disagio di chi vive con angoscia il conflitto che separa l’autentico dall’inautentico.

Concludiamo, come abbiamo cominciato, con le parole dell’attore:

Non ho ancora pensato a cosa potrebbero scrivere di me in un manuale di storia del teatro o del cinema. Forse: “Michel Piccoli ha amato il suo mestiere”, oppure “l’ha servito al meglio”. Non sarebbe male e credo che sia vero. (Piccoli in Jacob 2015, pos. 1143)

Lo crediamo anche noi.

Riferimenti bibliografici
G. Jacob, M. Piccoli, J’ai vécu dans mes rêves, Grasset, Paris 2015 (Edizione Digitale Kindle).

C. Jandelli, I protagonisti. La recitazione nel film contemporaneo, Marsilio, Venezia 2013.
A. Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia 2020.

Michel Piccoli, Parigi 1925-Saint-Philbert-sur-Risle 2020. 

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