di PIERMARIO VESCOVO
In ricordo di Maurizio Scaparro.
Maurizio Scaparro ha avuto una vita lunga e intensa, superando la soglia dei novant’anni. Una vita per il teatro cominciata come critico, e poi, dalla metà degli anni sessanta, proseguita da regista e direttore artistico di vari teatri italiani (tra questi, nell’ordine, Teatro Stabile di Bologna e di Bolzano, Teatro di Roma, Teatro Eliseo), del settore spettacolo dell’Expo di Siviglia nel 1992, dell’Ente Teatrale Italiano, di cui fu commissario straordinario nel 1994-’95, ma anche direttore di compagnie autonome. Con Scaparro muore forse l’ultimo rappresentante di una generazione di registi, nati tra gli anni venti e gli anni quaranta (citiamo solo Luca Ronconi, 1931), al contempo collocabili nel rapporto di un’idea e pratica della regia e con le forme di organizzazione dello spettacolo, caratterizzanti le vicende del teatro italiano della seconda metà del Novecento. Una voce di dizionario di qualche anno fa ne riassume benissimo le caratteristiche, dicendolo «avverso a ogni forma di spettacolarità eccessiva», capace di fare «dell’allusione e dell’illusione chiavi di lettura possibili dei propri spettacoli, contrassegnati da una tensione verso una teatralità riccamente utopica, cha abbia sempre al centro il destino dell’uomo».
Scaparro praticò fittamente Goldoni (da Una delle ultime sere di Carnovale, 1988-’89, a La bottega del caffè, 2015, alla libera rielaborazione dei Mémoires, 2005), ma tra le sue ricorrenti attenzioni per la drammaturgia di questa civiltà teatrale non si può non ricordare l’anonima La venexiana (1965 e 1985), Shakespeare, Brecht, e poi anche Petrolini, Beckett, Pirandello, in un rapporto che segna esperienze centrali e ricorrenti che riguardano titoli come il Don Chisciotte di Cervantes (ridotto da Azcona e Kezich, 1983) o, e soprattutto, Memorie di Adriano da Marguerite Yourcenar (1990), mentre tra gli altri titoli viene senz’altro tra i primi alla memoria, ripreso e ripensato dagli anni settanta agli anni novanta, il Cyrano di Bergerac di Rostand (1982). Da questi titoli, qui citati in ordine sparso e in maniera del tutto incompleta, emergono anche i nomi di alcuni attori a lui particolarmente legati, da Pino Micol a Giorgio Albertazzi a Mario Scaccia, da Massimo Ranieri a Peppe Barra, da Laura Adani a Claudia Cardinale, in una lista ovviamente altrettanto approssimativa. Se citare qui nomi e titoli ha un senso del tutto relativo, forse un ricordo più puntuale, che è anche, inevitabilmente, un ricordo personale, riguarda il rapporto del “romanissimo” Scaparro con Venezia, a partire dai suoi due mandati di direttore della Biennale Teatro, a distanza di un ventennio, sicuramente centrali e quindi rappresentativi dell’uomo che si avvicinava ai cinquant’anni (che ho conosciuto da giovanissimo teatrante) e di quello che aveva superato i settanta (con cui ho avuto il privilegio di collaborare), in due diversi momenti non solo della sua vita, ma della storia del teatro italiano ed europeo.
Il primo quadriennio, 1979-1982, oggi tanto più lontano, è ormai oggetto di storicizzazione (ricordo, anche in rapporto alla donazione che egli fece del suo archivio all’Istituto per il teatro e il melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, nel novembre del 2021, per gli “Incroci di Civiltà” organizzati dall’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, una conversazione che si intitolava significativamente “Maurizio Scaparro e l’invenzione del Carnevale veneziano”, e le idee che avevo raccolto per l’occasione). “Invenzione” segna, in realtà, oltre un momento irripetibile, ovvero l’esplosione di una grande festa del teatro, l’incontro con un cartellone di ampio respiro europeo e di grande apertura nei teatri e fuori dai teatri, in anni per altri versi cupi della storia italiana, dove sicuramente le due dimensioni non furono prive di rapporto e la voglia di festa con il piombo e la chiusura. Un’esperienza presto riassorbita e serializzata dall’industria turistica e presto divenuta routine del Settecento di maniera e delle feste in palazzo. Non a caso, con un rapido viraggio, Scaparro decise di intitolare il cartellone dell’anno seguente a un, quasi ossimorico, “Carnevale della Ragione”. Chi ripercorra però i programmi di quei “festival” vi troverà nomi ed esperienze rilevantissimi, respiro internazionale, attenzione per realtà giovanili accanto a nomi affermati, singolari incontri di personalità di libro e di scena, di teatro di ricerca e di nomi affermati, di apertura del teatro agli spazi della città e oltre alla città.
L’inizio del suo mandato si fissò in un convegno – di cui non sono significativamente mai apparsi gli atti – intitolato “Lingua e dialetto nel teatro italiano”, che vide le presenze congiunte di rappresentanti della scena e degli studi, in una relazione fruttuosa e non per puro accostamento, nel senso dell’interrogazione delle radici e della storia del teatro italiano, parallelamente alla mostra, pensata insieme a Paolo Portoghesi, che pure iniziava il suo mandato al settore architettura, nella comune commissione ad Aldo Rossi del “galleggiante” Teatro del Mondo, e qui con un rilevantissimo catalogo (soprattutto un “atlante” di immagini), intitolata “Venezia e lo spazio scenico”, nella cui premessa si legge del senso secondo cui la storia ha connesso “costruzione della città e rappresentazione della vita”. Ad essa seguirono – soprattutto con i nomi della nuova scena napoletana di allora, davvero in un momento di ripensamento radicale del senso del teatro italiano – le due puntate di “scambi” tra Napoli e Venezia negli anni successivi, con l’attenzione forte all’altra grande, e diversamente viva, capitale storica del teatro italiano.
Il secondo triennio, ancora relativamente vicino, vide, al centro della sua attenzione, l’incrocio – certo in sé occasionale – dei centenari della morte di Carlo Gozzi (1806) e della nascita di Carlo Goldoni (1707), ovvero il riferimento all’arco di un secolo intero di storia del teatro italiano ed europeo, all’affacciarsi di quello che allora era – iniziato da poco, e con molte attese, purtroppo contaddette dalla realtà – il nuovo secolo. E il terzo anno – con un radicale cambio di bussola, in realtà profondamente pertinente al punto di partenza – un programma di “laboratorio e festival” intitolato al Mediterraneo, ad altre dimensioni e rotte del senso stesso di sentirsi europei.
Ho risfogliato, appena avuta notizia della sua scomparsa, i tre cataloghi e ripensato soprattutto a quanto parole ed etichette come, appunto, festival e laboratorio si siano consumate in un rapido giro d’anni, quando si poteva ancora rivendicarne e riproporne il senso. Non si tratta però del paragone alla ricchezza di anni irripetibili, che potrebbero apparire tali anche semplicemente a chi li ha vissuti per il passare del tempo e l’avanzare dell’età, ma di una questione di eredità, che come accade inevitabilmente si consegna con nettezza nel momento del distacco e dell’addio a una persona. Ho riletto le sue parole, quelle di un uomo del tutto privo di retorica e supponenza, anzi straordinariamente ironico, curioso e aperto all’attenzione al prossimo, alle novità, anche lontane dal suo gusto e dalla sua personalità di regista, alle occasioni e ai progetti. La memoria delle battute, tra sarcasmo e affetto, aldilà di un bellissimo rapporto personale sono un segno forte e incisivo dell’apertura mentale di un davvero grande uomo di teatro e progettatore di cultura, a partire dalla capacità di rapporti interpersonali, di relazioni con istituzioni, particolarmente apprezzabile nell’esperienza e nella pratica di una città come Venezia, dove luoghi e sedi vicinissimi nello spazio, che si percorre peraltro a piedi in pochi minuti, risultavano e sono tornati a risultare lontanissimi e che lui sapeva mettere in relazione.
Vorrei ritagliare, infine, qualche sua frase, che ho riletto nelle presentazioni ai cataloghi e alle iniziative qui brevemente ricordate, e che per me, per quelle più recenti, sono intessute del ricordo della sua “viva voce”. «Riuscire ad esprimersi superando le 500 parole d’inglese che sembrano essere indispensabili alla comunicazione» – scriveva introducendo il programma di Mediterraneo – indicando «la necessità di parlare le nostre lingue, che è fondamentale conoscere e scambiare». Lingue della realtà e del mondo e, ovviamente, lingue del teatro. Parole tanto più forti oggi, nella progressione, spesso banalizzante, di un’internazionalità prevalentemente sprovvista di coscienza e di appartenenza locale e quindi europea, ovvero di respiro. Parole tanto più forti nella disillusione e nella cupezza di quello che ha smesso di essere, da allora ad oggi, il secolo nuovo, e per molte pagine buie della storia intercorsa. In questo senso va inteso anche il rapporto con la tradizione e, con un’altra parola che gli era cara, niente affatto banale e scontata, creatività. Avere coscienza della continuità e della produttività della cultura, che vale per le donne e gli uomini di scena e di libro.
Tra le sue parole trovo ancora un’eco particolare di un dialogo con Georges Banu, scomparso solo pochi giorni prima di lui, e che mi piace ricordare insieme a lui, e non solo per rimpiangere quegli anni bellissimi e le conversazioni estive dalle parti dell’Arsenale o in altri luoghi veneziani. Anche e soprattutto per gli anni prossimi, che toccheranno soprattutto ad altri: per il teatro l’orizzonte dovrebbe essere il presente, e il materiale la memoria.
Maurizio Scaparro, Roma 1932 – Roma 2023.