I libri di Marc Augé, quelli che hanno lasciato il segno tanto nel dibattito accademico quanto nel discorso pubblico, occupano una posizione paradossale: sono al contempo vicini e lontani, semplici e complessi. Descrivono con lucidità, fascinazione e stupore la globalizzazione e i suoi effetti, ma prefigurano con estrema chiarezza il nostro stesso presente, del quale ci invitano a indagare gli impliciti e i presupposti. Da Un etnologo nel metrò (1986) a Nonluoghi (1992), fino a L’antropologia del mondo contemporaneo (2004) e ancora oltre, essi sono stati scritti in una manciata di anni, negli ultimi decenni del secolo scorso oppure all’alba del nuovo millennio. Definiscono qualcosa come una soglia, l’orizzonte all’interno del quale ancora ci muoviamo.

La capacità del pensiero di Augé di collocarsi in bilico tra due secoli – o, forse, di concepire un unico lungo secolo che prende grossomodo avvio nel Secondo dopoguerra e i cui esiti sono tuttora indefiniti – sembra risiedere nella messa a punto del concetto di “surmodernità”. Pur entrando esplicitamente in dialogo con le tesi lyotardiane sulla postmodernità, Augé ha elaborato una teoria del contemporaneo a misura dello sguardo antropologico, capace di tenere assieme la riflessione sul tempo e la memoria, quella sullo spazio e le geografie della mondializzazione, e quella sulle forme di soggettività. Ad interessarlo non è stata tanto la “fine delle grandi narrazioni”, quanto piuttosto la loro intensificazione, il loro eccesso, fino all’indeterminazione, al rumore bianco o d’altri colori. Come arriverà a esplicitare nel suo libro di maggiore successo,

Il XXI secolo sarà antropologico, non solo perché le tre figure dell’eccesso sono solo la forma attuale di una materia prima perenne che è la materia stessa dell’antropologia, ma anche perché nelle situazioni di surmodernità, come in quelle che l’antropologia ha analizzato sotto il nome di acculturazione, le componenti si sommano senza elidersi (Nonluoghi, 1996, p. 61).

Dietro un’invenzione lessicale e concettuale come quella di “nonluogo” – un termine a ben vedere ereditato da Michel de Certeau –, così come dietro all’idea di sperimentare l’approccio etnografico in riferimento al mondo occidentale contemporaneo, la forza teorica di Augé è stata quella di tenere insieme le nozioni di spazio, tempo e soggettività, in un’unica presa, come un’inevitabile sinergia analitica e critica. Dedicarsi alla descrizione e allo studio delle forme antropiche significa del resto, inevitabilmente, considerarle in riferimento a un orizzonte storico complesso e stratificato (si pensi a Le forme dell’oblio del 2001, ma anche a Rovine e macerie, 2003), nonché a una geografia che ora si espande, ora si restringe, o che, meglio ancora, offre continue possibilità di radicamento e sradicamento, territorializzazione e deterritorializzazione (termini deleuziani e guattariani espressamente ripresi da Augé). È così che lo sguardo antropologico sul tempo presente, nel continente europeo, sembra assumere per Augé le forme di una microfisica dell’interazione gravitazionale, dove spazio, tempo e forme di vita si scontrano, ripiegano e incastonano le une nelle altre: «Ciò che è significativo nell’esperienza del non luogo è la sua forza di attrazione, inversamente proporzionale all’attrazione territoriale, alla pesantezza del luogo e della tradizione» (1996, pp. 128-129).

Per chi si occupa di cinema, di arti e di media, Augé è stato un compagno di visioni e di viaggio, qualcuno che non si è limitato a utilizzare questo o quel film come supporto illustrativo delle sue teorie della società. In tutti i suoi libri, tanto le tecnologie della comunicazione quanto le immagini sono concepite come parte integrante dei fenomeni sociali e culturali in questione. Anche sulla scorta delle sue esperienze di campo in Costa d’Avorio, nel Togo (da cui Le Rivage alladian, 1969; Théorie des pouvoirs et idéologie, 1975; Poteri di vita, poteri di morte, 1977) e in America Latina, Augé ha messo in evidenza le continue oscillazioni degli immaginari e i tentativi di stabilizzazione simbolica, il carattere normativo e, al contempo, elastico di qualsiasi narrazione: «Le mitologie parlano certamente delle origini, ma vengono citate, utilizzate, esplorate e reimmaginate per rispondere alle questioni del presente» (1998, p. 24). E, sia detto per inciso, chiunque abbia un occhio al cinema contemporaneo – da Dune a Barbie – sa quanto esso sia ossessionato dall’esigenza di proporre o riproporre un determinato orizzonte narrativo, che talvolta coincide con un brand, nello scenario di visioni e di pratiche che chiamiamo “convergenza mediale”.

Certo, gli esempi che si trovano nei libri di Augé appaiono in alcuni casi desueti o vintage, legati come sono alla fase nascente del Web e alla diffusione delle tecnologie alla fine del Novecento. Anche la sua scrittura – la capacità di intrecciare ricerca di campo e divulgazione culturale – può suscitare perplessità disciplinari. Ma il successo dei suoi scritti e la persistenza del suo modo di guardare il mondo emergono proprio in rapporto alla caducità di alcuni degli oggetti sui quali si è soffermato. Nessuna innovazione, nessun upgrade tecnologico degli ultimi anni sembra aver messo veramente in scacco l’attitudine e gli strumenti dispiegati da Augé per riflettere sulle forme prototipali del contemporaneo. È così, per esempio, che rileggendo le pagine dedicate a Peter Falck e al Tenente Colombo, affiorano due intuizioni il cui rilievo non viene meno – ma si ridefinisce – nell’epoca della complex TV: «L’indissociabilità del personaggio e dell’attore rimane l’elemento chiave delle serie televisive» (Augé 1998, p. 110). E, ancora, la televisione,

come ogni religione, si modella sul ritmo stagionale dell’anno. Introduce così in ogni famiglia dei volti tanto più familiari in quanto li si attende a ore fisse e si può avere la sensazione di averli scelti cambiando canale ogni momento, se necessario. La casa si popola così di lari, di piccole divinità domestiche, amabili, di umore costante, rassicuranti (ivi, pp. 109-110).

Al di là delle riflessioni espressamente dedicate alle arti e al cinema (quest’ultime, in stretto dialogo con le teorie di Christian Metz, collega di Augé all’EHESS di Parigi), è come se le grandi nozioni augeiane di “surmodernità” e di “nonluogo” fossero esse stesse permeate da un pensiero dell’immagine, dei media e della tecnologia. In particolare, ripercorrendo i suoi scritti, risulta chiaro come quel processo di intensificazione e indeterminazione dei riferimenti temporali, spaziali e identitari, caratteristico della surmodernità, sia strettamente correlato ai processi di mediatizzazione.

A cavallo tra diversi decenni, due secoli e due millenni, incontrando e studiando oggetti della cultura di massa, quello di Marc Augé è uno sguardo resistente, proprio in nome della sua capacità di cogliere aspetti paradigmatici che sopravvivono alle mode, alla caducità strutturale che caratterizza i nonluoghi nell’epoca della loro affermazione globale. Senza assumere una prospettiva apocalittica né, meno che mai, integrata, Augé ha cercato e inventato gli strumenti e le parole per analizzare e sottoporre a critica alcuni dei fenomeni più cogenti del presente: la proliferazione di ambienti basati sulla tecnicizzazione delle forme di riconoscimento (gli aeroporti, i centri commerciali e tutti gli spazi basati sull’idea di contratto), la reificazione di mondi finzionali (Disneyland e la “disneyficazione” delle città) e l’affermazione di nuove paure paniche (per accumulo di eventi distinti e distanti). Come chi non si è mai tappato gli occhi – neppure di fronte a fenomeni e immagini che di certo non apprezzava –, Augé resta un riferimento per chiunque voglia confrontarsi con la complessità del contemporaneo.

«Chi saranno i resistenti?», si chiedeva a conclusione di uno dei suoi libri, forse quello più esplicitamente dedicato alle immagini. Saranno «tutti i creatori che, mantenendo bene o male la circolazione fra immaginario individuale, immaginario collettivo e finzione, non rinunceranno a provocare il miracolo dell’incontro. […] Insomma, tutti coloro che si preoccuperanno di costruire la modernità più che di cortocircuitarla» (ivi, pp. 122-123).

Riferimenti bibliografici 
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. it., Elèuthera, Milano 1996.
Id., La guerra dei sogni: esercizi di etno-fiction, tr. it., Elèuthera, Milano 1998. 

Marc Augé, Poitiers 1935 – Poitiers 2023.

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