Ho conosciuto Luca Serianni nel 1978: io avevo 18 anni, lui non ancora 31 (li avrebbe compiuti dopo qualche settimana, il 30 ottobre). Era la prima lezione universitaria cui ho partecipato, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma (allora ancora tale tout court, senza appendici al nome, che non servivano perché altre Università pubbliche a Roma al tempo non ce n’erano). Luca indossava un completo beige e aveva dei folti baffi. I baffi: espediente cui a volte ricorrono coloro che appaiono troppo giovani per il ruolo che ricoprono, nel tentativo di sembrare più vecchi, o più autorevoli. Chissà se anche lui li aveva per questo motivo. La prima immagine di lui che mi appare ancora oggi se lo penso è quella di un ragazzo con i baffi, anche se più tardi i baffi persero salienza perché sfoltiti e accompagnati da una barba corta che gli donava moltissimo.
Penso spesso con stupore a quanto fosse giovane Serianni quando frequentavo le sue lezioni di grammatica storica della lingua italiana: all’età in cui oggi solo i bravissimi hanno completato il dottorato, lui era già un professore perfetto (anche se nei fatti all’epoca era ancora assistente: sarebbe diventato professore ordinario qualche anno dopo, nel 1980, a 33 anni). Raffaele Simone, in un ricordo pubblicato su un quotidiano, ha citato un’osservazione letta in uno dei numerosi tributi spontanei apparsi sui social subito dopo la sua tragica morte: di Luca Serianni «non si poteva dire nulla di male». E davvero, di Luca non si poteva dire che bene.
Io non posso dirmi sua allieva, perché non mi sono laureata con lui, ma sono stata sua studentessa, e ho fatto con lui, ormai già ordinario, la terza annualità di Storia della lingua italiana. La terza annualità, magnifica istituzione che vigeva all’epoca, almeno a Lettere di Roma: di due materie a scelta si potevano sostenere fino a tre esami, in tre diversi anni; la terza annualità era tipicamente su un programma concordato tra studente e docente, spesso su argomenti connessi a un progetto di tesi; ciò che appare incredibile oggi è che questo terzo esame potesse esistere e avere pieno valore legale senza che ad esso corrispondessero ore di “didattica erogata”; con tre annualità di due materie tra loro affini, ci si laureava con competenze specialistiche che oggi si hanno, quando va bene, forse a fine dottorato.
Nei miei anni di Università quella di Luca Serianni è stata una presenza costante, fin dal primo giorno. Faceva lezione di grammatica storica il sabato mattina, dalle 10 alle 12, in un’aula a pianterreno sempre gremita. Non avrei perso una sua lezione per nulla al mondo. La sua bravura e autorevolezza erano indiscusse tra tutte e tutti noi frequentanti. Le lezioni erano impostate nel modo che ora si può vedere in un libro che pubblicò con Bulzoni anni dopo, Appunti di grammatica storica italiana: dopo qualche lezione introduttiva sui principali fenomeni, soprattutto fonetici, che hanno avuto luogo nel passaggio dal latino all’italiano, si cominciava a commentare un canto dell’Inferno, parola per parola; nel mio anno fu il III (Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, /per me si va tra la perduta gente…). A partire da una singola parola, Luca ricostruiva un sistema: dopo un solo verso, già si era parlato della quasi totale scomparsa della categoria di caso, rimasta solo nei pronomi (me), dei diversi etimi che erano confluiti nel paradigma suppletivo di andare (va), della nascita dell’articolo (la), dell’apocope (città), e via dicendo. Altri hanno già ricordato come Luca facesse lezione con l’unico ausilio di un gesso e una lavagna – e della sua magnifica calligrafia, che ancora oggi riconoscerei a prima vista, leggibilissima e personale a un tempo. Non mi pare che avesse appunti scritti da seguire: l’impressione che ci dava era di sapere tutto, spontaneamente, senza sforzo.
L’ordine di presentazione degli argomenti non era (almeno apparentemente) governato da altro che non fosse l’ordine di occorrenza dei fenomeni nel testo: presto ci parlò della legge Tobler-Mussafia (fecemi, verso 5), poco dopo dell’esito di –s finale (voi, verso 9) e dall’esame di voi partì un inciso sulla cosiddetta “i avverbiale” che troviamo in poi (sviluppo della /s/ di post o analogia con forme come ieri < heri, che hanno /i/ etimologica?). La prima forma di futuro era al verso 17 (vedrai), e la trattazione sullo sviluppo del futuro romanzo venne quindi abbastanza tardi, quando ormai sapevamo molte cose. Ai miei tempi non ricordo che ci abbia fatto fare esercizi, né in classe né a casa – ma questa pratica, che io apprezzo moltissimo e utilizzo sempre nella mia attività didattica, Serianni la introdusse anni dopo, come so dalla testimonianza di studentesse più giovani che mi è capitato di aiutare nella preparazione dell’esame. E ci sono esercizi anche nella nuova edizione degli Appunti, intitolata Lezioni di grammatica storica italiana.
Come molti hanno già rilevato, Serianni era perfetto anche nella didattica. Noi non dubitavamo che lui sapesse tutto ciò che bisognava sapere, e che ce lo avrebbe saputo trasmettere se solo avessimo chiesto. Il giorno prima di presentarmi all’esame, fui colta da un dubbio: perché in italiano nove (il numero 9) non dittonga? Oggi so che è un problema reale, sul quale esistono almeno tre autorevoli ipotesi in letteratura; all’epoca, mi sembrava che non saperlo fosse solo una mia mancanza, forse mi ero distratta quando lui ce lo aveva detto… perché sicuramente doveva avercelo detto, come poteva non averne parlato? Anche se la parola nove non occorre nei primi 51 versi del canto III su cui avevamo lavorato… ma c’è puose al verso 19, che gli avrebbe dato occasione di parlare anche dei dittongamenti mancati. Che fare? E se poi all’esame mi chiede proprio: come mai nove non dittonga?
Altri hanno scritto che studiavano non foss’altro che per non fare brutta figura con lui. Io studiavo anche per un sincero interesse verso la materia (come il seguito prova), ma certo non era pensabile neppure farmi cogliere impreparata. Dunque il giorno prima dell’esame prendo un autobus (il 99!), vado in facoltà sicura di trovarlo, mi metto in fila davanti alla porta del suo studio, e aspetto di essere ricevuta per porre il quesito: mi avrà dato una risposta, ma non la ricordo; sono però sicura che mi avrà risposto con quell’affabilità, gentilezza, e precisione che lo hanno sempre contraddistinto. Non so se oggi qualcuno passerebbe mezza giornata a traversare Roma il giorno prima dell’esame per porre una sola domanda su una minuzia a un professore, soprattutto non so se oggi si potrebbe dare per scontato che il professore sia lì, presente in facoltà e disponibile ad ascoltare e a rispondere.
La mia impressione è che Serianni in facoltà ci fosse sempre. Molti anni dopo, non più studentessa, ormai già collega, andai in Monteverdi (la Biblioteca di italianistica e filologia romanza della facoltà) e lo vidi studiare seduto a un tavolo, in mezzo agli studenti. Mi sembrò stranissimo, vedere un professore in biblioteca – io non avevo quasi mai tempo di andarci, men che meno nella mia sede, dove ero (e sono) sempre impegnata in interminabili riunioni che risucchiano le ore migliori della giornata sottraendole allo studio. Luca invece riusciva a studiare sempre. Un comune amico che lo conosceva molto bene mi disse che studiava sempre almeno un po’ il giorno di Capodanno, perché fosse di buon auspicio per poter studiare tutto il resto dell’anno. Per fortuna il frutto dei suoi studi è depositato in moltissimi libri, articoli, lezioni registrate, risposte a domande poste al Servizio di Consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, e nella monumentale Grammatica italiana pubblicata nel 1988. Continuare a leggerlo potrà aiutarci nello studio e nella ricerca, ma l’impossibilità di tornare a porgli domande di persona ci farà sentire ancor più acutamente l’eterno dolore per la sua perdita ingiusta e tragica.
Luca Serianni, Roma 1947 − Lido di Ostia 2022.