Al termine/di questa lunga impresa/mi riuscirà di essere/colui che ama
cioè di meritare finalmente/il nome che mi ero dato
un uomo/nient’altro che un uomo
e che non ne vale nessuno/ma che nessuno vale.

JLG/JLG – Autoportrait de décembre (Godard, 1994)

Jean-Luc Godard è stato uno dei più grandi artisti del XX (e XXI) secolo. Emblema del cinema moderno, simbolo (con Truffaut) della Nouvelle Vague, ha rinnovato in profondità, più di una volta, con ineguagliata originalità, il linguaggio cinematografico, ha dedicato al cinema una meditazione sconfinata (difficile pensare sul cinema qualcosa che Godard non abbia pensato: accade lo stesso, credo, solo con Ejzenštejn) realizzando, tra corti, cortissimi e lunghi, una quantità impressionante di lavori, alcuni dei quali, come tutti sanno, leggendari. Nella ricerca, nella sperimentazione permanente, ha rintracciato il cardine operativo di tutto il suo lavoro, misurandosi, senza mai temerle, con le innovazioni della tecnica e sempre pensando di procedere per scarti radicali, per nuovi cominciamenti, ogni volta diversi. Film dopo film, lungo le linee di una proverbiale dimensione riflessiva del fare filmico, ha interrogato in tutte le direzioni possibili le potenzialità e i limiti del cinema, ma anche, sempre, la sua capacità di abitare il mondo, di muovergli incontro, di corrispondere al suo richiamo.

L’adolescenza dorata, un’iscrizione alla Sorbona, i veri banchi di scuola della Cinémathèque («Una sera andammo da Langlois. E la luce fu») dove, en cinéphile, ora povero e spiantato, impara il cinema a memoria, come tanti giovani intellettuali della sua generazione. Entrato nella banda hollywoodofila e oltranzista della “Gazette du cinéma”, hitchcock-hawksiano come tutti i jeunes turcs, ai “Cahiers”, è stato, come i suoi amici della Nouvelle Vague formatisi sulla rivista dalla copertina gialla, allievo (eterodosso) di Bazin, del quale tuttavia, forse più degli altri (perfino più di Rohmer, e dello stesso Truffaut, che di Bazin è stato soprattutto un grande editore), non ha davvero mai smesso di meditare la lezione. La domanda-madre di Bazin (e della teoria del cinema tout court), Qu’est-ce que le cinéma?, è di fatto ciò che fonda e alimenta l’intera riflessione e tutto il cinema di Godard.

I suoi articoli ai “Cahiers” (e su “Arts”) contengono già molti dei principali nodi del suo cinema e sono decisivi per comprenderlo in profondità: la meditazione sul rapporto tra la realtà e l’immagine, la relazione di circolarità tra il documentario e la finzione, l’indiscernibilità delle nozioni di etica ed estetica, la relazione del cinema con le altre arti. Tutti motivi d’ascendenza baziniana, riconfigurati dai turchi lungo le linee della politique, e da Godard radicalizzati con particolare coerenza e con marcata intensità. E già da questi scritti è forse possibile almeno intuire – nel transito dalla pagina alla pratica – l’articolazione di un pensiero duale sull’immagine che troverà nel montaggio (mon beau souci) il suo principio di determinazione.

Gli anni ‘60, quelli del (vero) passaggio all’atto, i più universalmente conosciuti di Godard, dall’avvento della Nouvelle Vague alle grandi prove del cineasta successive all’esaurimento del fenomeno, sono il periodo esteticamente più fiammeggiante del suo cinema: vi sfolgorano, susseguendosi a ritmi serrati, tra le altre, cose come Fino all’ultimo respiro (1960), Questa è la mia vita (1962), Il disprezzo (1963),  Il bandito delle 11 (1965), Due o tre cose che so di lei (1966). Una permanente indagine sul linguaggio cinematografico, fatta di film in film, invenzioni ovunque, la società contemporanea e l’arte, la vita da sola e la mercificazione del sensibile, la trasfigurazione delle forme generiche, la libertà e la morte, nel farsi di una scrittura che cerca dentro e fuori dal cinema le forme del pensiero e che nel cinema le ritrasforma in potenze della composizione.

La cinese (1967) presentiva il Maggio ed era già il primo passo, ancora molto vago, verso una nuova fase: di lì a poco, cioè dopo il ‘68, l’etica (fenomenologica) del periodo Karina lascia il posto all’ideologia in nome della quale occorre uccidere l’estetica, almeno quella che governava il periodo precedente. Sono gli anni militanti del Gruppo Dziga Vertov, del connubio Godard-Gorin e di film tanto ardui e rigidi (come Vento dell’est, 1969, Lotte in Italia, 1970, Vladimir et Rosa, 1970 e altri) quanto da cima a fondo onesti e a loro modo sofferti.

Seguono gli anni di Grenoble, densissimi di sperimentazioni: Numéro deux (1975) è il nome programmatico del nuovo inizio, il video diventa il mezzo per pensare il cinema e la società dei secondi anni ‘70, il lavoro di Godard assume una dimensione artigianale e solitaria – ma con il fondamentale apporto creativo di A.M. Miéville –, che dà, tra gli altri, lavori utopici e radicali, come i televisivi Six fois deux (1976) e France tour/détour deux enfants (1978).

Con il ritorno al cinema propriamente detto, il regista si misura più esplicitamente che in passato con temi alti e gravi, con il sublime, con l’idea della luce come strumento di creazione, con il sacro, e porta a pieno compimento, film dopo film, la disgregazione del fatto narrativo avviata fin dagli anni ’60: Passion (1982, tra le più grandi riflessioni godardiane sull’atto del comporre), Prénom Carmen (1983), Je vous salue, Marie (1984), notissimi, sono alcuni dei numerosi titoli di questa stagione, in cui si situano pure lavori come Detective (1985) o Cura la tua destra (1987).

Fino all’avvento delle Histoire(s) du cinéma (1988-1998), il più ambizioso di tutti i progetti del cineasta, lungamente immaginato negli anni, opera-matrice di tanti film successivi: una tempesta di immagini e suoni che ha la forma di un polittico in video in cui Godard convoca idealmente l’intera cultura occidentale per raccontare la storia del cinema (soprattutto delle sue mancanze) e quella del XX secolo (soprattutto dei suoi orrori), connettendo in tutte le combinazioni possibili immagini visive e/o immagini sonore e configurando l’ordine del senso negli interstizi di ciascuna connessione. È l’articolazione più radicale, più incandescente e più regolata di quello che Deleuze aveva già chiamato il metodo del Tra e che Godard descriveva spesso attraverso una nota definizione di Reverdy. Il rapporto con la Storia e con la memoria è centrale in questi anni (per esempio: Allemagne année 90 neuf zéro, 1991) e in tutti quelli a venire, ma non prescinde dall’interrogazione del presente (per esempio: For Ever Mozart, 1996).

La vena creativa, le ossessioni, gli stilemi dell’universo Godard si proiettano nel nuovo millennio con rinnovata intensità e con la coerenza di sempre: Éloge de l’amour (2001), Notre musique (2004), Film socialisme (2010) sono le tappe maggiori di questo periodo. A ottantaquattro anni, dopo averlo già sperimentato in un corto, gira un film in 3D, Adieu au langage (2014), ennesima meditazione sull’atto di creazione cinematografica, che mostra l’impressionante densità in cui ormai si compie la scrittura godardiana, sempre più ardua e stratificata, quasi in senso proprio cifrata. Quattro anni più tardi, con Le livre d’image (2018), il regista firma il suo ultimo lungometraggio. Leggenda della settima arte, ammirato dagli intellettuali, (quasi subito) abbandonato dal pubblico, il grande cineasta franco-svizzero è stato (molto presto) trattato come un autore-monumento i cui film, tuttavia (almeno da un certo momento in avanti), erano assai poco visti o perfino non visti affatto.

In tutto questo, anche quando si è chiuso nell’isolamento di Rolle (dove viveva dal ‘77), come grande guardiano del passato (del cinema, dell’arte in genere, di un umanesimo in via di sparizione), Godard ha sempre abitato pienamente il proprio tempo, ne ha colto i sussulti e le trasformazioni, spesso ha saputo prefigurarlo. E il cinema, l’enfance de l’art, è stato lo strumento per viverlo e per attraversarlo, nello sforzo incessante, disperato e in senso ampio politico, di contrastarne i vuoti e le contraddizioni, le derive e gli orrori.

Non c’è che da concludere questo breve, imperfetto ritratto di JLG, dettato, come ovunque è accaduto, nel mondo, dalla sua scomparsa. Cerco proprio in Godard il modo più giusto per farlo e mi ricordo di un suo piccolo testo (Frère Jacques) apparso sui “Cahiers” nell’aprile del 1960, in occasione della morte di Jacques Becker. «Facciamo finta d’essere commossi – vi scriveva Godard – poiché sappiamo, dopo Il testamento di Orfeo (Cocteau, 1960), che i poeti fanno finta di morire».

Jean-Luc Godard, Parigi, 3 dicembre 1930 – Rolle, 13 settembre 2022.

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