L’Azionismo viennese è il movimento più radicale all’interno di quella galassia di esperienze che negli anni sessanta-settanta si coagula attorno alle etichette di happening, body art, performance art. Sono artisti che, dopo una prima fase di pittura materica, scaturita dal corpo a corpo con il colore, passano presto ad azioni estreme, caratterizzate da autolesionismo, sadomasochismo, sessualità e ritualità, che provocano scandali e denunce penali. Quasi tutti hanno concentrato la loro attività in quegli anni cruciali, e sono poi in vario modo scomparsi (Richard Schwarzkögler, Günter Brus, Otto Mühl).
Solo Hermann Nitsch non ha mai smesso di lavorare fino alla sua morte a 82 anni pochi giorni fa, il 18 aprile 2022; e di lavorare in fondo sempre alla stessa «opera interminabile», come l’ha definita Vincenzo Trione: l’opera di una vita. È passato così dalle vicissitudini giudiziarie allo statuto di classico del Novecento, consacrato in vario modo: due musei dedicati alla sua opera (uno a Mistelbach, e uno, di rara bellezza, nel centro storico di Napoli); la commissione di opere (Mythos, 1998) e di regie liriche (Massenet, Stravinskij, Messiaen, Glass), fra cui una alla prestigiosa Staatsoper di Vienna, luogo simbolico di quel paese da cui era stato processato ed espulso (ma non è mai riuscito a realizzare il sogno di un Parsifal a Bayreuth); e la pubblicazione di un volume monumentale, che raccoglie un’antologia di tutti i suoi testi, un’impressionante documentazione fotografica, e svariato materiale critico, iconografico, teatrale e musicale.
Dopo una fase giovanile, fra cui spiccano un rifacimento della Crocefissione di Rembrandt e un dramma sulla creazione, influenzato da Kokoschka (Assassino speranza delle donne), Nitsch inizia la sua vera carriera nei primi anni sessanta, con performance di pittura-azione, in cui viene versato il sangue di un agnello sul corpo di un performer incatenato e crocefisso al muro, macchiando così di rosso la sua veste bianca; e con azioni in cui compaiono come protagonisti i corpi morti degli animali e il corpo crocefisso degli attori, mentre il materiale con cui si celebrano i rituali sono le interiora, le uova, il sangue e altri liquidi (latte acqua vino sperma orina).
Sono azioni che vogliono rievocare il ciclo primordiale di creazione e distruzione, sollecitando tutti i sensi dello spettatore, e provocando le sue reazioni di disgusto, stordimento, ebbrezza, estasi. Il confronto con l’eccesso sadomasochistico, con la violenza primigenia, con l’orrore dello smembramento, mira a suscitare nel pubblico un effetto emotivo forte, capace di liberarlo dalle repressioni e dagli automatismi. Per questo punto chiave Nitsch recupera un concetto che il giovane Freud definì mentre lavorava con Breuer sull’isteria, usando il metodo dell’ipnosi: l’abreazione; il termine indica infatti una scarica emozionale con funzione catartica, che fa riaffiorare i ricordi di esperienze traumatiche. Nitsch però inserisce questo meccanismo in un processo più articolato, in cui si fondono piacere e terrore, positivo e negativo, vitalità e distruzione.
Le performance di Hermann Nitsch sono dunque un’esperienza regressiva, sia a livello di psiche individuale, sia a livello di storia psichica dell’umanità. Questo riferimento ossessivo alla dimensione primordiale non implica affatto un primitivismo irrazionalista: l’artista dichiara che le sue azioni non hanno nulla di religioso (ma certamente tanto di sacro), sono esperienze estetiche che recuperano schemi mitici e rituali arcaici, per produrre nello spettatore un’estasi polisensoriale, che trasforma il disgusto e l’angoscia in piacere catartico, e che si richiama ai miti di Edipo (a cui è dedicato il suo primo dramma), Adone (per la morte e la trasformazione del sangue in fiore), Attis (per le feste orgiastiche che prevedevano l’autoevirazione), Mitra (per il rito che prevedeva lo spargimento del sangue di un toro sull’iniziando), e soprattutto di Dioniso, per lo smembramento rituale del dio e per l’annullamento di tutte le differenze, in particolare quella fra umano e animale, autentica ossessione di tutte le arti del Novecento e di tanta riflessione filosofica.
Il ciclo dionisiaco di passione e resurrezione ha richiamato più volte alla mente (dalla tarda antichità a Hölderlin) la figura di Cristo: e Nitsch inserisce infatti molteplici richiami all’iconografia cristiana, dalla crocefissione dei performer allo spargimento simbolico del vino, fino all’uso di cappelle e chiese come sfondi. C’è dunque un sincretismo e un universalismo di fondo, che si irradia anche alla filosofia orientale e si riflette nei numerosi richiami letterari, figurativi e musicali, da Caravaggio (a cui ha dedicato un bell’omaggio in una mostra a Frascati) a Bacon, da Kleist (il cannibalismo erotico di Pentesilea) a Trakl, da Wagner a Skriabin.
Questi ultimi riferimenti ci permettono di introdurre un concetto legato alla figura retorica della sinestesia, l’opera d’arte totale, un’utopia estetica ed esistenziale che Wagner modella sulla tragedia greca: non una semplice fusione fra le arti, ma una sinergia profonda che mira a fondere arte e vita. È un’utopia che animerà il simbolismo, le avanguardie storiche, le neoavanguardie degli anni settanta, trasformandosi ben presto in distopia (la propaganda dei totalitarismi nazista e sovietico), e realizzandosi infine nella tecnologia digitale, con tratti ovviamente diversi. In Hermann Nitsch rivive l’utopia wagneriana in una forma estrema: performance teatro danza musica architettura pittura rito festa si fondono per dare vita ad un’esperienza totalizzante, e per formare una comunità di attori e spettatori.
Proprio per questa aspirazione intrinseca all’arte totale, la ricerca espressiva di Nitsch non poteva non approdare a una dimensione spazio-temporale diversa, dilatata, non convenzionale come era successo a uno dei suoi autori prediletti, Skriabin, che aveva progettato un’opera di sette giorni alle pendici dell’Himalaya, Mysterium, (1915). A partire dal 1971 viene allestito ogni anno, nel castello barocco di Prinzendorf (non lontano da Vienna), il Teatro delle orge e dei misteri (Orgien Mysterien Theater): una performance che dura sei giorni, generalmente nella settimana di Pentecoste.
Il pubblico del Teatro delle orge e dei misteri ha un ruolo distinto dai performer (non può toccare gli animali e non compie le azioni rituali, come versare il sangue o il vino), ma è fortemente coinvolto nell’estasi collettiva: la sua esperienza oscilla fra contagio emotivo, empatia negativa, e trasfigurazione catartica. Si scontra con una serie di fattori destabilizzanti: energia distruttiva, violenza primigenia, eccesso sadomasochistico, materia organica, orrore cosmico e sublime; e poi rielabora quest’esperienza regressiva, totalizzante e polisensoriale, nei vari momenti di distensione previsti dal programma. Nitsch è stato spesso accusato di aver recuperato solo il lato negativo del dionisismo, e di aver esaltato guerra e distruzione (è stato ovviamente attaccato anche dagli animalisti, pur lavorando solo su animali già destinati al macello e pur avendo espresso posizioni animaliste): al contrario, la sua poetica mira all’acquisizione di un equilibrio interiore attraverso l’empatia negativa, e il confronto con il caos e la dissoluzione delle forme. Chi, come chi scrive, ha avuto modo di conoscerlo negli eventi organizzati dal suo amico e gallerista di Napoli, Giuseppe Morra, non potrà dimenticare la serena pacatezza della sua persona, la profonda piacevolezza della sua coltissima conversazione.
Riferimenti bibliografici
S. Ercolino e M. Fusillo, L’empatia negativa, Il punto di vista del male, Bompiani, Milano, in corso di stampa.
A. Imponente e E. Saldari, a cura di, About Caravaggio. Visioni ed Illusioni Contemporanee, Allemandi, Milano 2012.
M. Karrer, Hermann Nitsch. The Gesamtkunstwerk of the Orgien Mysterien Theater, Walter König, Köln 2015.
V. Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Einaudi, Torino 2019.
Hermann Nitsch, Vienna 1938 – Mistelbach 2022.