Illuminare mondi altrui: è questo il destino del direttore della fotografia, figura professionale per decenni vittima delle “politiche degli autori” centrate sulla figura artistica del regista, e poi restituita al prestigio della firma dalle battaglie dell’italiano Vittorio Storaro. È la scuola italiana, in effetti, la prima ad aver fatto scuola dall’epoca dell’emigrazione espressionista ad Hollywood: e Giuseppe Rotunno, scomparso quando ormai veleggiava verso i cento anni (era nato a Roma nel 1923, il cinema era ancora muto e in bianco e nero – e Cinecittà doveva ancora essere costruita), è l’ultimo caposcuola di una generazione che ha annoverato nomi come Gianni Di Venanzo, Tonino Delli Colli (quello della poesia di Pasolini “Metta, metta, Tonino, / il cinquanta, non abbia paura / che la luce sfondi”), Carlo Di Palma (una carriera da Antonioni a Woody Allen), Armando Nannuzzi, Pasqualino De Santis (premio Oscar per Romeo e Giulietta, un set che finì in Mondovisione assieme ai Beatles) e Alfio Contini.

Il primo incontro con Luchino Visconti è per Le notti bianche (1956), dopodiché Rotunno è il responsabile del clamoroso bianco e nero di Rocco e i suoi fratelli (Nastro d’argento 1961 come miglior fotografia) e dell’altrettanto clamoroso colore di Il gattopardo (1963, anno in cui il nostro lavora anche a I compagni di Monicelli e a Ieri, oggi, domani di De Sica); la collaborazione, che comprende gli episodi viscontiani di Boccaccio ’70 e Le streghe (ma lì Rotunno firma anche l’episodio di Pasolini La Terra vista dalla Luna), si protrae fino a Lo straniero. Nel rapporto con Monicelli è compreso La grande guerra (1959), cofirmato con altri, un CinemaScope b/n che non ha nulla da invidiare al kubrickiano Orizzonti di gloria (di due anni prima).

Rotunno è il colore di Fellini a partire da Toby Dammit, l’episodio di Tre passi nel delirio (fatidico 1968) che immette il regista riminese in un clima orrorifico (Rotunno sarà poi responsabile di La sindrome di Stendhal di Dario Argento) e che è stato ben studiato da Kubrick, che in Arancia meccanica rifà la corsa in macchina del protagonista copiando le inquadrature e il tipo d’illuminazione. Fellini Satyricon, sorta di remake di La dolce vita ambientato nell’antica Roma di Petronio Arbitro, è un’allucinazione hippy (l’anno è il 1969) in cui Rotunno mischia i colori pompeiani a quelli del fumetto di Alex Raymond Flash Gordon, approdando ad esiti “elettronici” che anticipano i futuri videoclip. Se il finale del Satyricon – in cui i protagonisti diventano affreschi sopra rovine abbandonate su spiagge fantascientifiche – sembra alludere alla sopravvivenza dell’immagine anche cinematografica, un episodio di Roma (film pieno di suggestioni pittorialiste, si riveda il défilé di moda ecclesiastica) torna sul tema con straordinaria forza poetica: i lavori sotterranei per la metropolitana fanno venire alla luce una serie di affreschi coloratissimi, che però svaniscono inesorabilmente man mano che l’aria invade le antiche sale; una metafora sulla fragilità delle immagini nel cuore di un cinema che sembra votato all’immortalità.

Amarcord (1973) è il film delle epifanie: si pensi alla nebbia da cui emerge un animale che sembra far la guardia a un mondo ultraterreno; si pensi al transatlantico Rex, che è tutto un gioco di lucine che nulla ha a che fare col realismo digitale del Titanic. Il Casanova di Federico Fellini (1976) è il film del raffreddamento dei colori e dunque delle atmosfere: a partire dall’iniziale Venezia in festa, ovviamente ricostruita in studio, la scelta dei toni freddi e cupi – di cui si ricorderà il Kubrick di Eyes Wide Shut – è un metodo talmente sicuro di distruzione dell’erotismo maschilista del latin lover da condurre il film alla sua rovina economica. La gestione di spazi chiusi e fortemente metaforici, attuata in Prova d’orchestra e La città delle donne, trova la sua conclusione nell’ultima collaborazione Rotunno/Fellini (anch’essa premiata col Nastro d’argento alla migliore fotografia): E la nave va è di nuovo un metafilm giocato sugli esibizionismi dell’immagine, riassunti nella scena di tramonto sul mare che una crocierista commenta con le parole “Com’è bello, sembra finto” (che andrebbe ribaltato in un improbabile “Com’è finto, sembra bello”, motto di qualunque direttore della fotografia).

Ricordo in Non ci resta che piangere un movimento di macchina bello ed inutile: un dolly (o meglio una gru) s’innalza sulla facciata di un maniero per anticipare il percorso fatto da Benigni e Troisi all’interno; ebbi allora l’impressione che Rotunno avesse voluto mettere in piedi un virtuosismo visivo all’interno di un meccanismo narrativo in cui la direzione della fotografia è tutto sommato inutile (un po’ la situazione di Luciano Tovoli per il coevo Fracchia contro Dracula). Ma tant’è, un professionista non si sottrae alle committenze, e dunque Rotunno è anche il direttore della fotografia di Film d’amore e d’anarchia (Wertmüller, 1973), Il bestione (Corbucci, 1974), Divina creatura (Patroni Griffi, 1975), Ecco noi per esempio (Corbucci, 1977), Bello mio, bellezza mia (Corbucci, 1982) ed altri titoli non indimenticabili.

Anche il rapporto con i registi stranieri – iniziato all’epoca della Hollywood sul Tevere con Montecarlo (Taylor, 1956) e poi negli USA con L’ultima spiaggia (Kramer, 1959) – è all’insegna di un professionismo che sconfina nell’iperattività: La sposa bella (Johnson, 1960), Jovanka e le altre (Ritt, 1960), La Bibbia (Huston, 1966) cofirmato col grande fotografo Ernst Haas, Candy (Marquand, 1968), Il segreto di Santa Vittoria (Kramer, 1969) non sono le stazioni di una via crucis, ma le tappe di un’esperienza internazionale che poi approda alle collaborazioni con Mike Nichols (Conoscenza carnale), Bob Fosse (il felliniano All that jazz, premio BAFTA 1981 come migliore fotografia ma anche nomination all’Oscar 1980) e Terry Gilliam (Le avventure del barone di Munchausen, Nastro d’argento 1990 per la miglior fotografia).

Insomma, se il made in Italy si vede anche nel (al) cinema, Giuseppe Rotunno è una delle sue griffe. Un maestro anche nell’accezione didattica: dal 1988 al 2013 docente responsabile del corso di Fotografia presso il Centro Sperimentale. Perché, contro ogni mistica della creatività ineffabile, anche la luce s’insegna.

Riferimenti bibliografici
O. Caldiron, Giuseppe Rotunno e la verità della luce, Skira, Milano 2007.
M. Zydowicz, Giuseppe Rotunno: The lifetime achievement award, Torun/Camerimage, 1999.

Giuseppe Rotunno, Roma 1923 – Roma 2021.

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