Periodicamente, negli ultimi decenni Gigi Riva ritorna ad attirare l’attenzione del mondo dell’informazione, dell’editoria, della comunicazione. Lo spazio datogli ad ampio raggio da organi di stampa e social media in occasione della sua recente morte non è da considerare un’eccezione per il campione sportivo, e negli ultimi due anni l’uscita di un lungo documentario (Nel nostro cielo un rombo di tuono, 2022, di Riccardo Milani, ora in programmazione su Sky) e di un volume autobiografico (Gigi Riva, Mi chiamavano Rombo di tuono, Rizzoli, 2022) sono solo alcuni esempi di questo grande interesse.
Luigi Riva da Leggiuno, in provincia di Varese, naturalizzato cagliaritano e “sardo”, è una sorta di eroe contemporaneo i cui meriti vanno ben oltre l’essere stato un campione di calcio che ha segnato lo sport nazionale fra gli anni sessanta e settanta. Un eroe per i nostri tempi, ma non un eroe del nostro tempo in quanto i principali meriti che gli vengono attribuiti sono per lo più assenti nel mondo in cui viviamo. Riva è infatti portatore di valori che la nostra società non ha più e che lui incarna rappresentando quello che sembrerebbe essere perduto definitivamente. Non tutto può essere comprato, dice la vita di Riva, e i valori dell’amicizia, dell’onestà, dell’appartenenza possono ancora resistere e rimanere saldi.
Il campione sportivo si è così trasformato progressivamente in eroe popolare e lo storytelling ha mantenuto le gesta del calciatore dal sinistro esplosivo, ma le ha arricchite da aneddoti che con il calcio hanno poco a che fare. D’altronde, 35 goal in Nazionale su 42 presenze sono forse sufficienti per creare un mito? Evidentemente no, dato che è da questo che si parte per le celebrazioni, ma in un attimo si passa alla componente umana, alla vita travagliata, allo stile del personaggio, alla sua riservatezza e alla sua umanità.
Le narrazioni su Riva ci propongono un personaggio che sembra uscito dalla penna di Charles Dickens, con un’infanzia crudele che lo priva in breve del padre, operaio morto in fabbrica, trafitto da un pezzo d’acciaio, della madre, portata via da un cancro dopo anni di duro lavoro in filanda e nelle “case dei ricchi”, e infine della sorella che era stata una seconda madre. Anni dolorosi di privazioni coronati da periodi in severi collegi religiosi, quasi una prigione, e chiusi con il trasferimento in Sardegna nel 1963 quando l’isola era la Caienna in cui i continentali erano mandati in punizione.
Quella terra brulla e disperata, vista dall’aereo mentre si recava in Spagna per una delle prime partite fuori casa, lo spaventava e, racconta nelle tante interviste, mai ci sarebbe voluto andare. Ma il destino vuole che sia proprio il Cagliari calcio, una squadretta di periferia e di un campionato minore, a offrirgli la possibilità di abbandonare quel mondo di indigenza. E così il figlio della povertà e della miseria, quasi a voler mantenere anche in questo il carattere dei racconti di Dickens, accetta la sorte senza rassegnazione e si riscatta grazie alle qualità personali, diventa un campione, un uomo famoso.
Ha autorità, danaro e popolarità, è corteggiato dai potenti e adorato dai fans. Ma questo successo non condiziona la sua natura di persona onesta e corretta e così non rinuncia ai suoi valori sani anche di fronte a offerte molto allettanti. Ed è probabilmente per questo che della esistenza di Riva si trascurano tutti gli aspetti negativi e quegli elementi che hanno segnato la vita normale dell’uomo, con gli errori, i compromessi, le sbandate che la cronaca d’epoca ha raccontato e che non trovano spazio nei racconti successivi come se nella narrazione del personaggio Riva si debba fare riferimento a un canone di eccellenza che porta a eliminare dal racconto ogni possibile debolezza o “imperfezione”. È così che nasce il mito.
Fra il 1954 e il 1956 Roland Barthes pubblica dei brevi scritti che nel 1957 vengono raccolti in un volume di grande successo pubblicato in Italia da Einaudi col titolo Miti d’oggi. Il semiologo francese in questo brillante testo, con gli strumenti dell’analisi semiologica e della critica alla società di massa riflette su alcuni “miti” in voga nella società del periodo e spiega che il mito si regge sulla parola e il racconto cristallizza la storia (nel senso delle vicende storiche), la supera andando oltre essa e la propone in una forma aperta all’approvazione della società e in tal modo la deforma. La storia diventa lettera, immagine, testo con una funzione sociale. Il mito esclude la critica, la riflessione, l’osservazione del particolare che differisce dal generale, l’eccezione.
Anche per il mito di Gigi Riva vale lo stesso ragionamento. Gli elementi della sua vicenda personale ritornano costantemente nel tempo, ripetuti in dieci, cento, mille interviste e articoli che ripetono, pur in modi diversi, i medesimi contenuti che sono quelli ritenuti significanti per il protrarsi del mito stesso. Di Riva conosciamo tutto, eppure continuiamo a leggere nuove interviste e nuovi libri, a vedere documentari e speciali televisivi, ma non tanto per scoprire qualcosa della sua persona, quanto piuttosto per verificare se quello che già sappiamo è contenuto in quei libri, in quei documentari, in quelle interviste, per verificare se sono fedeli o se hanno tradito qualcosa di cui già siamo a conoscenza e a cui siamo affezionati. È una lettura di conferma, più che di scoperta, funzionale a ribadire un’idea, a consolidare un concetto.
Quello di Gigi Riva è un mito unificante, infatti intorno a lui ci si ritrova e ci si riconosce a prescindere dall’estrazione sociale, dall’appartenenza politica, dalla provenienza territoriale. Le dichiarazioni, in occasione della morte, del capo del Governo, del Presidente della Repubblica e dei vari ministri e leader politici sono in tal senso emblematiche. E poco importa che Riva le proprie posizioni politiche non le abbia certo nascoste. Quando nella autobiografia scrive che Enrico Berlinguer aveva scelto di stare «dalla parte giusta della storia» (Riva 2022, p. 156) esprime un concetto ben preciso con parole prive di ambiguità.
Il ragionamento assume un carattere particolare se considerato nel quadro del rapporto fra Gigi Riva e la Sardegna, dove il mito prende una sfumatura ulteriore di tipo identitario. Una comunità per sopravvivere e rafforzarsi, ci spiega Jan Assmann (1997), ha bisogno di miti in cui riconoscersi e la memoria collettiva si forma intorno a figure del ricordo che le permettono di consolidarsi e durare nel tempo. In tali figure portatrici di una autorevolezza riconosciuta dall’intera comunità vengono ritrovate caratteristiche e qualità proprie che diventano modello a cui tendere, esempio edificante, ideale di riferimento. Non è sbagliato, in questa prospettiva, considerare Riva come una figura del ricordo in cui la “sardità” acquisita è unanimemente riconosciuta come rilevante sia in Sardegna che all’esterno, tanto da renderlo idealmente un concentrato di valori e segni identitari.
In tal senso anche la vittoria dello Scudetto nel 1970 è un momento dal forte valore simbolico di cui Gigi Riva è il massimo esponente. L’idea un po’ retorica e un po’ reale che la squadra del Cagliari calcio, quasi una sineddoche, rappresentasse l’intera Sardegna e le sue vittorie sul campo fossero una sorta di riscatto di un popolo che la storia ha collocato dalla parte dei perdenti rimane forte e convincente anche a distanza di decenni. Come leggere altrimenti la telefonata che Claudio Ranieri, l’allora allenatore della squadra cagliaritana, racconta di aver ricevuto da Riva poco prima della partita col Bari in chiusura del campionato di serie B 2022-2023, quando contro ogni pronostico la partita è vinta e si può tornare in serie A? “Ricorda ai ragazzi che dietro di loro c’è tutta la Sardegna” raccomanda Riva.
La morte di Riva ha consolidato ancor più il mito, ma anche per lui vale quanto Barthes scrive in chiusura del suo saggio: «Il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione […]. Abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze, sopprime ogni dialettica […], organizza un mondo senza contraddizioni perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice» (Barthes 1957, p. 223-224). E certamente l’uomo Riva meriterebbe di più.
Riferimenti bibliografici
J. Assmann, La memoria culturale, Einaudi, Torino 1997.
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1957.
G. Riva, Mi chiamavano Rombo di tuono, Rizzoli, Milano 2022.
Luigi Riva, Leggiuno, 7 novembre 1944 – Cagliari, 22 gennaio 2024.