«Sono sempre gli altri che muoiono», c’è scritto sulla tomba di Duchamp. Non sappiamo se e cosa ci sarà scritto sulla lapide di Gianfranco Baruchello – che di Duchamp è stato molto amico – ma non ci sorprenderebbe se il grande artista italiano adottasse questa stessa epigrafe. Come il maestro del dadaismo, del resto, ha sicuramente condiviso quel distacco verso le cose della vita e dell’arte, quella medesima ironia meta-artistica e auto-riflessiva, che lo ha portato ad attraversare molti decenni dell’arte contemporanea, senza mai aderire a nessun movimento e senza mai seguire tendenze alle mode stabilite dal mercato. Baruchello ha, insomma, seguito una sua strada personale ed “anacronistica”, divertendosi a sperimentare cose diverse (dal cinema al video, dalla costruzione di scatole alle operazioni concettuali, dagli oggetti alle installazioni, dai libri alle escursioni di carattere land-artistico) restando tuttavia ancorato per tutta la vita alle sue inimitabili tele dipinte su cui si fissano microdisegni colorati: un immaginario miniaturizzato accompagnato da scritte, descrizioni, calembour.
Seppur di carattere spesso ruvido – la prima volta che l’ho conosciuto, a metà degli anni novanta, non è stato facile rompere la sua diffidenza iniziale – Baruchello è stato comunque artista generoso verso gli altri, pensiamo solo al rapporto quasi paterno che ha intrattenuto con un giovane Pablo Echaurren o al sodalizio che stringe con Alberto Grifi, col quale realizza il suo film più famoso, Verifica incerta (1964-65), operazione di found-footage o, meglio, object-trouvé filmico, sotto la benedizione di Duchamp che – oltre a comparire nel film in spezzoni muti in bianco e nero – lo presenta nei templi dell’arte di Parigi e New York. Ma da molti anni – insieme alla compagna e storica dell’arte Carla Subrizi – Baruchello aveva dato vita a una fondazione creata nel 1998, con l’obiettivo di promuovere anche giovani artisti, con cui non ha sempre voluto confrontarsi, magari condividendo lo stesso spazio espositivo: ricordo una sua installazione al padiglione Italia della Biennale di Venezia che dialogava con un lavoro di Elisabetta Benassi.
Nato a Livorno il 24 agosto 1924, Baruchello si allontana dall’attività di famiglia (una società chimica) per dedicarsi all’arte e partecipa alla sua prima mostra collettiva nel 1961 presso la galleria Anthea di Roma. Risale a due anni dopo la prima personale, che allestisce alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. È in questo periodo che stringe amicizia con Duchamp, che presenta le opere di Baruchello alla Cordier & Ekstrom di New York. Sono gli anni in cui l’artista sperimenta la pittura su supporti come plexiglas e alluminio. A cavallo degli anni sessanta-settanta realizza diversi film in 16mm, fondando la Cooperativa del Cinema Indipendente, insieme tra gli altri ad Adamo Vergine, Alfredo Leonardi, Luca Patella, Massimo Bacigalupo, Anna e Guido Lombardi (scomparsi anche loro di recente). Cooperativa, nata sul modello della Filmmaker’s Coop di Mekas, che si pone come obiettivo quello di diffondere opere underground altrimenti non visibili. Nel 1973 Baruchello si trasferisce in campagna dove fonda l’Agricola Cornelia S.p.a., azienda dove all’attività lavorativa si affianca quella speculativa e creativa.
In questo periodo realizza anche scatole e vetrine, ovvero commistione di oggetti e pittura. Intanto, lasciata la cinepresa 16mm, adotta la videocamera, fondando insieme a Lajolo e Lombardi il collettivo “Altrementi” e passando poi, negli anni novanta, al digitale. Molto intensa anche la sua attività di scrittore. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo: Mi viene in mente (1967), La quindicesima riga (1968) – singolare opera-collage ricavata prendendo la quindicesima riga da centinaia di altre opere –, Avventure nell’armadio di plexiglas (1968), Agricola Cornelia S.p.a. (1981), Why Duchamp? (1986, con Henry Martin), Girano voci. Tre storie (2012) con Nanni Balestrini.
Nel campo del cinema d’artista, il nome di Baruchello resta centrale, anche se il rischio è quello di vederlo troppo legato soltanto a Verifica incerta, se non altro perché è il film sperimentale italiano più conosciuto anche all’estero. L’idea di quel film – che colpì anche personalità come Umberto Eco, autore di un illuminante testo – deriva sicuramente da operazioni similari di molto antecedenti, come Rose Hobart (1936) di Joseph Cornell, artista surrealista americano che ispira Baruchello anche per quanto riguarda le sue scatole, assemblage di oggetti, fotografie, disegni, ecc. Un altro artista-filmmaker che in quegli anni aveva innovato la pratica del found-footage film fu senza dubbio Bruce Conner, poco conosciuto in Italia.
Il film si basa su un campione di circa 150.000 metri di pellicola di film (quasi tutti statunitensi) degli anni cinquanta e sessanta, perlopiù in cinemascope, sottratti al macero per 15.000 lire. Il montaggio (quasi un happening a sé) dura sette mesi, al termine dei quali il materiale viene massicciamente ridotto a 40 minuti e, alla fine, sono riconoscibili circa una cinquantina di film; la selezione viene fatta, almeno inizialmente, mediante l’uso dei numeri casuali (“random numbers”), anche se poi la maggior parte delle associazioni e dei rimandi tra un film e l’altro sono estremamente pensati. Grifi, inoltre, ricorda di aver continuato a montare altri spezzoni manualmente e “a occhio” (con la pressa Catozzo), durante il viaggio in auto alla volta di Parigi dove, nel 1965, sarebbe stato proiettato in anteprima, di fronte a Ernst, Man Ray, Matta, Jouffroy e, naturalmente, Duchamp. Successivamente, per eliminare le migliaia di giunte fatte con lo scotch, dall’originale 35mm cinemascope, venne fatto un controtipo in 16mm, lasciando la distorsione delle immagini (appiattite dal mancato uso durante il trasferimento della lente scope) e il colore originale, ottenuto senza variare la filtrazione in corso di stampa.
Verifica incerta può essere letto come saggio metafilmico che mette in evidenza – anche se non in modo rigido e costante –, situazioni e stilemi ricorrenti nel cinema hollywoodiano di genere, nonché détournement esplicitamente “politico”. Da questo “montaggio (anarchico) delle attrazioni”, emerge in effetti un emblematico protagonista, Eddie Spanier, quasi a illudere lo spettatore che ci possa essere una continuità narrativa o una chissà quale logica nascosta, in questi continui falsi raccordi, salti, scavalcamenti di campo, ripetizioni e rovesciamenti del fotogramma (la reversibilità del cinema in tutti i sensi), che attuano sistematicamente la distruzione di qualsiasi dimensione spettacolare: basti pensare alla stessa scelta di mortificare il cinemascope, deformando i corpi degli interpreti precedentemente esaltati da questo formato “di lusso”.
In definitiva la cesura, l’inversione, la ripetizione, l’asincronia e l’associazione sono gli elementi base di questo ribaltamento del linguaggio filmico che finiscono col donare al film di Baruchello-Grifi, una sua armonia isterica. Ma Baruchello nell’arco di 50 anni ha realizzato complessivamente oltre 80 opere basate su immagini in movimento: un numero altissimo che testimonia di un interesse affatto sporadico per il cinema. Il suo primissimo film è Il grado zero del paesaggio (1963), un super 8 a colori di 25’ che ci mostra le onde del mare, mentre il suo ultimo (o uno dei più recenti) risale al 2011, si intitola The Coefficient, The Garden as a Joint Agent ed è una rielaborazione di materiali che riguardano il rapporto tra l’artista e la natura, incluso il giardino come agente collaterale della mente immaginativa e riflessiva. Questo lavoro fu tra l’altro realizzato in occasione della Garden Marathon tenutasi presso la Serpentine Gallery di Londra in quello stesso anno.
In mezzo a questi due estremi, vanno ricordati diversi film che potremmo definire performativi degli anni sessanta-settanta, cortometraggi in 16mm che non sono strettamente collegati alle opere pittoriche e oggettuali di Baruchello, ma costituiscono una estensione delle sue pratiche estetiche, anche in senso concettuale. Pensiamo a Costretto a scomparire, Perforce, Norme per gli olocausti, Complemento di colpa, Per una giornata di malumore nazionale (tutti del 1968, anno fatidico della rivolta sociale e politica), oppure l’onirico Tre lettere a Raymond Roussel (1969-1970). Più incentrato sul versante dell’immagine che del gesto, Tre lettere ha un aspetto lunare, ipnotico, tutto virato in un azzurrino tenue, pieno di immagini fluide se non letteralmente liquide. La sua ideazione è contenuta in germe in uno dei tanti spunti per film, annotati in quello stesso anno: «Ci si fa svegliare alla fine di una intensa fase REM» – scrive l’autore – «e si registra al magnetofono quanto si ricorda, il più fedelmente possibile. Riversati i nastrini si tagliano le pause, gli intercalari, i colpi di tosse e quanto superfluo, e se ne fa una colonna sonora su cui costruire un possibile film. Il materiale onirico costituisce una seconda colonna sonora pronta all’uso».
L’aspetto performativo – circoscritto perlopiù alla dimensione sonora – pur nella sua paradossale e ricercata discrepanza, viene perfettamente a coincidere con il discorso sullo sguardo, uno sguardo estremamente mobile e fluido, molto vicino all’occhio della telecamera. In questo senso Tre lettere a Raymond Roussel appare un film di cesura, forse proiettato verso un’estetica elettronica che costituirà il futuro interesse dell’artista. Ma è anche vero che questa attenzione alla perdita di definizione dell’immagine, con conseguente illeggibilità, ha un collegamento – come nota sempre Subrizi – con altre sue operazioni estetiche di quegli anni: l’uso della fotocopia e anche della fotocopia della fotocopia, o la ripresa fotografica di immagini televisive.
Con Alberto Grifi l’artista torna a collaborare realizzando Una visita a Man Ray nel 1970. Ma, nel frattempo, Baruchello si era confrontato con l’oggetto “televisivo”, con una buona dose di irriverenza e un irrefrenabile istinto di negazione: Television Limiter (1965) è un progetto di annullamento della visione per mezzo di schermi opachi da posizionare davanti ai monitor; mentre con Enoncé impossible (1967), sempre Baruchello compie un’operazione rituale assai ricorrente nel suo cinema, quella di inscatolare oggetti: in questo caso si tratta di un nastro da due pollici mai visionato, che viene spedito ad un festival come presunta opera di “videoarte”.
Siamo di fronte a un azzeramento della visione (e dell’enunciazione) con uno scarto ironico aggiuntivo, poiché lo statuto di “videoarte” non è dato tanto dalle immagini, quanto dal contenitore, dall’involucro che le contiene preservandone la loro inconoscibilità. Solo a partire dal 1973 – anno in cui spedisce al festival di Graz la copia unica di un nastro magnetico intitolato Was ist Trigon?, che sarà restituito al mittente solo 40 anni dopo, come un object à detruire di dadaistica memoria – Baruchello inizia sistematicamente a utilizzare il videotape. La sua opera più ambiziosa (in termini di durata) la realizza qualche anno dopo – complice sempre Grifi dietro l’obiettivo – girando circa 22 ore di interviste a pensatori francesi sul tema del “dolce”: A partire dal dolce (conosciuto anche con il titolo Doux comme saveur e A propos de la douceur, 1978-1979).
A metà degli anni ottanta, come dicevamo, insieme a Lombardi e Lajolo – pionieri del video militante nei primi anni settanta con il collettivo Videobase – Baruchello costituisce il gruppo “Altrementi”: nascono tra gli altri: Dietro l’iride (1985-87), Fraintesi dall’incantevole (1989), Quando il giallo si dissolve (1990), Punto di fuga (1991), 68/91 (1991). Quest’ultimo si ricollega a due episodi del film collettivo Tutto, tutto nello stesso istante, firmato nel 1968 dai membri della CCI, per riflettere, oltre vent’anni dopo, sulla valenza politica di quella operazione e di quella stagione. Terminata l’esperienza plurale, dagli anni novanta Baruchello ritrova, cominciando a utilizzare una handycam, la sua dimensione di videomaker singolare. Nascono così brevi video, tra cui: Non c’è, Ballade, Quaranta immagini, Retard, Alati o Cento donne viste dall’interno di un’automobile, tutti datati 1996. Un’attività intensa – che si alterna naturalmente alla sua produzione di arte visiva in senso stretto – che prosegue nel decennio successivo, con opere quali: Pena di morte (2000), Colpi a vuoto (2002), La traversata (2006), Pensare la piega (2006), Ars memoriae (2009) o Quaranta parole (2010).
Ripensare alla relazione che Baruchello ha intrattenuto con le immagini in movimento, vuol dire – in primo luogo – riflettere su come un artista di grande cultura, ma ben poco classificabile, ha saputo scardinare non tanto e non solo le regole della narrazione audiovisiva, irridendo – come ha fatto con Verifica incerta – il cinema classico e mainstream, quanto piuttosto constatare che il suo lavoro sul dispositivo è sempre stato all’insegna del bricolage concettuale e dell’assemblage analogico-manuale. Attraverso il medium filmico prima e videografico poi, Baruchello ha avvertito la necessità di decostruire all’infinito l’immagine, di scomporla, di vivisezionarla, di reiterarla.
L’aspetto che più interessa Baruchello, dunque, è quello del “montaggio”, ma inteso in senso più ampio, ovvero warburghiano del termine, come procedimento che ritroviamo, anche se sotto forme diverse, nei vari campi espressivi in cui opera l’artista. «La matita, la penna, la moviola, la cinepresa, i registratori mi hanno insegnato a MONTARE, in qualche modo, le parole, le immagini, gli oggetti della mia stessa esistenza», ha affermato una volta Baruchello. Oltre che nelle scatole con oggetti, questa passione di artista concettuale e visuale, la ritroviamo anche negli stessi quadri, dove una serie di elementi vengono correlati creando degli agglomerati complessi – e spesso caotici – che fluttuano nello spazio bianco della tela. Citando il famoso parallelo di Pasolini (contenuto in Empirismo eretico) tra piano-sequenza/vita e montaggio/morte, potremmo concludere che Gianfranco ha sempre, beffardamente, voluto prepararsi alla sua dipartita, montando e rimontando senza tregua la sua vita: filmica, artistica e reale.
Riferimenti bibliografici
A. Bonito Oliva, C. Subrizi, a cura di, Baruchello. Certe idee, catalogo della Mostra G.N.A.M. di Roma, Electa, Milano 2011.
B. Di Marino, Sguardo inconscio azione. Il cinema sperimentale e underground a Roma (1965-1975), Lithos, Roma 1999.
P. Fabbri, a cura di, Gianfranco Baruchello. Flussi, pieghe, pensieri in bocca, catalogo mostra Auditorium Parco della musica, Skira, Milano 2007.
J.-F. Lyotard, La pittura del segreto nell’epoca postmoderna: Baruchello, Feltrinelli, Milano 1982.
C. Subrizi, a cura di, Baruchello e Grifi. Verifica incerta. L’arte oltre i confini del cinema, Derive&Approdi, Roma 2004.
T. Trini, a cura di, Introduzione a Baruchello. Tradizione orale e arte popolare in una pittura d’avanguardia, catalogo mostra Galleria Schwarz, Milano 1975.
Gianfranco Baruchello, Livorno 1924 – Roma 2023.