Oggi si può abitare in una città di mare senza riuscire a vederlo, e il mare può riuscire a non vederlo anche chi lo attraversa, lo vende e lo compra. E per favore, quando finalmente si parla di mare non si chieda prima di parlare (come oggi va di moda) il permesso all’economia politica: ciò di cui occorre parlare è qualcosa che precede l’economia, della confidenza sentimentale con il mare, del mare che abbiamo imparato senza nessuna scienza ma solo abitandoci accanto, come un parente più grande, come la casa dove siamo nati, come un vicino, un silenzio, una solitudine o un mattino (Cassano 1996).

Amo le parole di Franco Cassano tanto da averle sottolineate e ri-sottolineate con diversi colori nei suoi libri. Perché continuano a propormi un modo alternativo di interpretare il mestiere di sociologo, offrendo una sponda a cui aggrapparmi per non cedere alla deriva che spinge a diventare contabile della società, sempre più capace di calcoli sofisticati e sempre meno dotato di quella creatività che permette di interpretare il nuovo e la complessità, nel suo farsi e disfarsi di pluralità. Cassano si oppone a questa deriva a partire da un elemento all’apparenza secondario, di cui il brano che ho scelto come incipit (tratto da Il pensiero meridiano del 1996) è uno tra tanti esempi: il bello scrivere, lo stile, la frase che, anche per questo, fulmina e si incide irrevocabilmente nella testa di chi legge. Con quella spietatezza che costringe a rivedere gran parte di quello che si era pensato prima.

Amo le parole di Cassano perché restituiscono quell’incantamento che trasforma il mare in un parente, una casa, un vicino, un silenzio; le amo perché rappresentano il contraltare a quell’inaridirsi della immaginazione a cui la modernità del calcolo costringe. Ho avuto modo di conoscerlo di persona, questo grande sociologo, diversi anni fa. Grazie a un suo allievo, Aurelio Garofalo, allora dottorando all’Università della Calabria e che, se la sorte non lo avesse portato via prima, sarebbe stato senz’altro un grande interprete di quello stesso pensiero che Cassano avviava, con le sue parole e con il suo stile.

Un intellettuale completo, Cassano, che tiene insieme una pluralità di ruoli e di sguardi. Era innanzitutto un accademico dotato di quella autorevolezza che viene da uno studio, insieme meticoloso e vasto, capace di portare nella prospettiva sociologica i contributi di altre prospettive; eretico come soltanto i grandi possono aspirare a essere. Era, insieme a tutto questo, persona impegnata nella politica, con uno sguardo che partiva dalla sua Bari e dalla sua Puglia, luogo di confine che voleva rendere prolifico punto di incontro per aree molto più vaste. Insomma, Homo civicus, capace di riflessione e presa in carico del mondo, a partire da quel mare che era ancora capace di vedere dalla sua casa barese.

Homo civicus (2004) è anche il titolo di uno dei suoi libri più influenti. Qui porta a compimento e sintesi quella pluralità di ruoli e di sguardo. È il libro in cui chiama a resistere all’onnipotenza distruttiva del mercato attraverso una pratica di cittadinanza che prende corpo nella cura e nella tutela dei beni che appartengono a tutti. È anche un invito a ridestare la capacità di identificare le linee sottili che individuano il terreno di tutti e di nessuno, spazio di incontro tra le persone spogliate della brama di appropriazione. Homo civicus è colui che si mette in gioco a favore di una collettività di viventi sempre più ampia e capace di sottrarsi alla tirannia del presente: «In un mondo in cui sembra che si possa essere solo sudditi o clienti, l’esercizio delle virtù civili e la scommessa della cittadinanza attiva sono l’unico modo per conciliare la difesa della libertà e la cura del bene comune, per sottrarsi alla tirannia degli Stati e a quella del mercato» (Cassano 2004).

Cassano è maestro di un nuovo sguardo sul Sud nel suo inevitabile rapporto con il resto del Paese, con l’Europa e con il mondo; è colui che, proprio a partire da questa prospettiva individua i nodi critici della modernità. E Il pensiero meridiano (1996) è la summa di questo pensiero e di questo rinnovato sguardo, libro che è stato capace di avviare un dibattito, a volte anche aspro, che ha definitivamente cambiato la visione del Sud e la prospettiva meridionalista.

Ma tra tutti i suoi libri, tanti e tutti importanti, ne ho amato uno in particolare, Modernizzare stanca (2001). Forse perché, con ancora maggiore chiarezza che altrove, vi è espressa la necessità di una critica alla modernità che non significa negazione ma riappropriazione creativa. Insomma, prospettiva che, pur partendo dal Meridione, a differenza di certe tendenze anche recenti di un meridionalismo claustrofobico, guarda a spazi più vasti, mediterranei ed europei. Di questi ultimi, chiama in causa la cultura più alta: «Abbiamo scelto Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso» (Cassano 2001).

Cartesio e Montaigne, quindi, come due poli della modernità europea. E Montaigne, seppure obbligato a uno stato di latenza culturale, rappresenta per Cassano quel pensiero che apre alla modernità perché si oppone alla cultura del dogma premoderno; allo stesso tempo, però, senza cadere nell’altro dogma, quello della modernità dell’efficienza e del calcolo a cui, di lì a qualche secolo, avrebbe spinto la proceduralizzazione scientifica della vita di matrice positivista. Montaigne, allora, come rappresentante della saggezza che invita ad aprirsi all’alterità, al plurale, nella prospettiva della continua necessità di rimetabolizzazione e articolazione delle identità. Cassano, riprendendo queste tensioni e pensieri, era convinto della necessità di una dialettica costante tra elementi dove la lentezza del passeggiare e del “cazzeggiare” diventano monito, contraltare riflessivo alla modernità dell’efficientismo.

Sempre in Modernizzare stanca, la modernità a cui aspira Cassano è descritta come capace di considerare le verità, tutte le verità, come precarie per quanto utili «capanne edificate per fronteggiare la complessità del mondo […], fondo immenso su cui noi continuamente ritagliamo le nostre costruzioni contro il disordine e la paura, le nostre verità piene di buchi» (ivi).

In questa proposta, emerge una raffinata concezione della identità, che non aspira a trovare conforto nel localismo provinciale e nei suoi comodi limiti. Diventa, piuttosto, base al servizio di una nuova socialità: «L’uomo può vivere bene nel presente, solo se esso è affollato e trafficato da tutti i tempi e modi del verbo, se egli, accanto al conforto di ciò che può toccare ha anche un po’ di nostalgia, desiderio di futuro, ricchezza di immaginazione, coscienza della complessità, senso del dovere e gusto dell’interrogazione metafisica» (ivi). Luogo di riflessione sul cambiamento, dove possano ricomporsi le ansie dell’individuo moderno, capace di dare senso per affrontare il futuro.

Di contro a certe tendenze identitarie rivendicazioniste, violentemente rivolte al passato (peraltro spesso inventato), alla ricerca di una sostanza identitaria, l’identità di Cassano è apertura, possibilità di tendere verso l’altro in maniera riflessiva, accogliente e capace di cambiamento in un gioco di reciprocità che riarticola. Lo sguardo al passato, la capacità, anche emotiva, di individuare una propria storia come fonte di solidità, diventa trampolino per affrontare l’altro e l’altrove. E ancora in quel testo, ci dice di

un’arte più sottile, quella di provare a uscire di lato dalle giornate, a sospenderne la pressione per rimettere in ordine le proporzioni, ciò che viene prima e ciò che, anche se crede di essere importante, deve imparare a fare la fila e attendere il suo turno. Bisognerebbe disporre di molte parentesi da collocare ogni tanto, come dei paraventi, nelle nostre giornate, per imparare a ritrovarci da soli o con chi piace (ivi).

Cassano propone percorsi difficili, anche scomodi, sicuramente non adatti al facile conforto identitario. Perché il suo messaggio aspira a dialogare nella modernità e con la modernità, non al di fuori di essa. Nel 2009, insieme a Donatella Loprieno, andai a incontrarlo di nuovo per un’intervista; ci accolse nella sua casa, a Bari, a pranzo, con una affabilità e una rara ironia che ci mise immediatamente a nostro agio. Ne uscì una lunga intervista, pubblicata su un numero del 2009 della rivista Daedalus, dove ci parlò della sua lentezza e del suo rapporto con la modernità e – come ci aspettavamo – ci spiazzò:

Già allora [ai tempi de Il pensiero meridiano, nda] io chiarivo che l’aspirazione non era quella di contrapporre al fondamentalismo della velocità quello della lentezza, ma di pensare ad una forma di vita in cui sia l’una che l’altra fossero esperibili da tutti, una forma di vita capace di arricchire l’esperienza e soprattutto di riconsegnare nelle mani dell’uomo la signoria sul tempo. Anche se penso che la nostalgia sia un sentimento utile e capace di insegnarci molte cose, non sono un nostalgico del mondo andato, penso che occorra provare a riformare la modernità, inserendo al suo interno sezioni di esperienza che ne rompano il monologo.

Una bella sintesi che invita a riflettere sulla complessità delle nostre vite. Da Sud e non solo.

Riferimenti bibliografici
F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996.
Id., Modernizzare stanca, il Mulino, Bologna 2001.
Id., Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004.
D. Loprieno, E.G. Parini, Intervista a Franco Cassano, in “Daedalus”, n. 2, 2009.

Franco Cassano, Ancona 1943 – Bari 2021.

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