Ho una notizia triste da annunciarti. Sono morto.
Posso parlarti questa mattina perché tu sei sopito,
sei malato, hai la febbre.
Da noi la velocità è molto più importante che da voi.
Non parlo della velocità che si muove da un punto all’altro,
ma della velocità immobile, della velocità stessa.
A noi non ci si vede, ci si può attraversare
Jean Cocteau
Il corpo esile, rannicchiato su una piccola sedia, curvo, le mani serrate sulle orecchie, mentre il vociare di un vicolo, il frastuono di un crollo come per una esplosione o un terremoto lo assorda. Quel corpo emette un urlo liberatorio e poi una piccola frase sussurrata a mezza voce, come una resa, un malinconico addio ma insieme quasi l’annuncio angelico di un ritorno dall’aldilà, da apparizione fantasmatica, quella di uno spettro che ancora conserva una sembianza impalpabile che appunto proviene dall’invisibile a farci visita: “Na notizia tengo, grande e triste a ve ra: so muorto”. È l’inizio di Rasoi (1991), lo spettacolo di Teatri Uniti firmato da Mario Martone e Toni Servillo (che subito dopo diventò anche film) entro cui si incarnavano i lacerti splendenti di un intero universo scritturale e poetico, quello di Enzo Moscato. Questa l’immagine indelebile impressa nella memoria che è affiorata nella mia mente alla notizia della sua scomparsa. Suo il corpicino minuto incollato su quella sedia e come crocifisso a un rosso sipario che lentamente si allontana dalla nostra vista, scoprendo le figure di un presepe dei derelitti, degli abitanti della “contea di N” (la trasfigurazione di una Napoli tragica e ancestrale).
Enzo Moscato: un immenso poeta, un drammaturgo, un attore, un cantore, un filosofo, l’inventore di un cosmo plurilinguistico, che mescola gli idiomi e arricchisce di efflorescenze la musicalità della lingua napoletana. La sua è una “lingua di scena” che si configura come un palinsesto scritturale e sonoro composto e de-composto, figurato e de-figurato in una incandescenza visionaria che affonda nelle viscere di una Napoli allucinatoria, in cui non c’è soluzione di continuità tra i vivi e i morti. Ecco: una delle ricorrenze nei testi, nelle “partiture” di Moscato è questo frenetico “commercio” tra passato e presente (dalla Napoli greca a quella secentesca, dal Settecento giacobino al dopoguerra) tra la dimensione vitale, carnale, sanguigna, carnascialesca, dionisiaca della città e quella spiritica, cavernosa, ultrafanica, cataclismatica, baroccamente funebre, mistericamente votata ai numi dell’oltremondo, di quella stessa città.
In tal senso il suo mondo poetico si accorda a quella enigmatica pietas per un universo “creaturale”, per le “piccole persone”, per gli esserini che aleggiano tra cielo e terra, di una scrittrice come Anna Maria Ortese, da lui molto amata, e che la scrittrice ha rintracciato ad esempio nella Napoli immaginaria del XVIII secolo di un romanzo come Il cardillo addolorato (1993), oppure nella fantasmatica isola «non segnata sulle carte» in un altro suo romanzo L’iguana (1965). Del resto fu ancora Martone in uno spettacolo del 2004, L’opera segreta, a convocare la scrittura di Moscato in assonanza con quella della Ortese. Per quell’occasione alcuni testi della Ortese furono come tracimati in un processo alchemico da Moscato e fatti convergere sia in una tessitura vocale che accompagnava il Caravaggio dell’”ultimo tempo”, quello della fuga e della misteriosa morte, per la prima parte in forma filmica di quello spettacolo, poi nella drammaturgia del racconto ortesiano La città involontaria (da Il mare non bagna Napoli, 1953) e infine nello stralcio da Partitura che lo stesso Moscato dedica agli anni napoletani di Giacomo Leopardi.
Non è un caso se in tale complicità di Moscato con un artista maledetto che ha inventato la luce corrusca che trafigge il buio e le carni, nelle pieghe e nelle piaghe del barocco pittorico come fu Caravaggio o con la dissipazione estatica e melanconica e il lirismo filosofico di Leopardi, si possa scorgere una radice profonda della sua maestria nel cesellare e sferzare insieme la parola di una poesia teatrale, di una cifra e di un tono peculiari tanto della sua scrittura, nel momento in cui questa si fa voce e drammaturgia, quanto della sua magnetica e magica capacità di scavare nelle ombre e nei sottosuoli ribollenti di una lingua che si fa atto lirico e tragico, beffardo e tenero nella reinvenzione e trascrizione degli umori e dei sentori di una Napoli diventata in quella sua scrittura il coacervo universale delle miserie e degli splendori della condizione umana. Come già fecero Caravaggio e Leopardi, Moscato ha percorso il labirinto ventrale di Napoli, i suoi vicoli dove bellezza e ferocia, ostensione dell’infero e desiderio di ascesa ai cieli si danno la mano. È nato e cresciuto nelle latebre dei napoletani Quartieri Spagnoli, in un ex palazzo nobiliare settecentesco (la cui fatiscenza si racchiude in un nome fiabesco; “Palazzo Scampagnato”), in mezzo al “gineceo narrante” di quei vicoli secolari, e lungo quelle scalette, rampe, piazzette e salitelle, nel buio di cinemini dove i suoi occhi di bambino si riempivano di sogni, avventure, melodrammatici amori, sul piccolo palcoscenico del teatrino della monache di un convento a Montecalvario frequentato da piccolo, ha assorbito e attinto tanto il dolore e la disperazione, quanto il giubilo e il godimento (lui stesso lo racconta in quelle straordinarie affabulazioni che sono i due memoirs di Gli anni piccoli, 2011 e Archeologia del sangue, 2020).
I femminielli, le prostitute, i piccirilli, i malavitosi, i fantasmi, le anime purganti, le processioni di devoti alla Madonna, i marinai, i venditori ambulanti, gli spiritilli, “gli storpi, i deformi, i muti, i folli, i vecchi tornati piccini, i piccini divenuti anime perdute”, sono venuti incontro nella sua discesa all’Averno a questo Orfeo dei nostri giorni, e da quei corpi, da quelle anime Moscato ha tratto gli accenti del suo canto che non cessa di risuonare. Quel canto risuona come lo stigma, acuto e penetrante, ma anche struggente e languoroso, di un desiderio dell’oggetto mancante, dell’oggetto perduto (che, direbbe Jacques Lacan, insiste e insorge solo in ciò che lui nomina lalangue, la parola che travalica la significazione, trapassa il senso e si sprigiona nel solo godimento di proferirsi: cioè la dimensione del “canto”, dove la “grana” della voce, per riprendere la definizione di Barthes, si spinge ai limiti del senso).
«Orfeo è il dio della nostra umana, troppo umana malattia della Sehnsucht […], il nostro doloroso struggimento per una bellezza assente, la testa sbattuta dalle onde di emozioni indisciplinate, che canta di ciò che non può essere e non è stato mai, stranieri su una spiaggia remota, lontani da ogni patria e incapaci di smettere di tradurre in poesia le pene laceranti della vita umana» (Hillman 2014, pp. 285-286). In questo modo Enzo Moscato è venuto tra noi come un «ritornante» (per usare una parola della Ortese che lui stesso ha ripreso nella ipotesi di trascrizione cinematografica del suo testo Spiritilli, pubblicata da Cronopio nel 2017), proveniente da un sostrato antichissimo, che affonda nelle misteriosofie isidee, ma soprattutto orfiche e trascorre, riaffiorando nell’anima immensa e ingorda di misteriosi segnali che abitava il suo esile corpo. Perché Moscato è un supremo “poeta orfico”, tra i più grandi del Novecento europeo, accanto a Savinio, e soprattutto a Jean Cocteau (con cui si è misurato da “fratello spirituale” in un testo come Co’stell’azioni, 1995-96); così come il tratto di crudeltà, di icastico erotismo, di trasfigurato intreccio tra arte e vita, nonché la dimensione etico-lirica e poetico-politica lo avvicinano ad Artaud, a Genet, a Pasolini.
Ma il suo contributo essenziale alla scena drammaturgica origina dalla rivelazione avvenuta agli inizi degli anni ottanta di quella che fu definita “nuova drammaturgia napoletana” post-eduardiana (accanto ad Annibale Ruccello, scomparso prematuramente, a Manlio Santanelli e a Francesco Silvestri), che operava una sorta di revulsione e di “amoroso tradimento” come atteggiamento necessario rispetto alla tradizione (che contiene già in sé il concetto di tradimento) di Eduardo o di Viviani, il cui “tenore” linguistico costituisce per Moscato comunque una linfa fertile da rifecondare. A questi anni ottanta-novanta appartengono testi dirompenti come Scannasurice (1982), Trianon (1983), Festa al celeste e nubile santuario (1984) Ragazze sole con qualche esperienza (1985), Cartesiana (1986), Piece Noire (1987), Partitura (1988), Little Peach (1988), Rasoi (1991), Compleanno (1992). L’importanza fondamentale poi della sua natura di “poeta di scena”, di “officiante” di cerimonie teatrali intrise di un lirismo beffardo e feroce e insieme di tenerezza, incantamento e disincanto, oltre che di un corpo a corpo con il linguaggio, di una sovversione e tormento della lingua, di un rovinoso e rapinoso fluire, di una scrittura di carne dolorosa e insieme godente, configura la sua animica e mercuriale presenza, che mentre appare con lo stesso scarto di gesto e di voce svanisce (e qui risiede il suo essere anche una delicatissima e pregnante voce cantante, come si può ascoltare in una sua incisione: Embargos, 1993).
In questo senso Moscato si affratella ad attori-drammaturghi, a maestri della phoné, a poeti della scena, come Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Franco Scaldati, Antonio Neiwiller. Ma con il suo corpus poetico e drammaturgico hanno trovato corrispondenza e affinità elettiva altresì artisti della scena come Toni Servillo, Mario Martone, Tonino Taiuti, Lino Musella, Francesco Saponaro, Cristina Donadio, Vincenza Modica, Isa Danieli. A lui una organizzatrice teatrale come Igina Di Napoli ha dedicato nello spazio di sala Assoli a Napoli, storico spazio nel cuore antico dei Quartieri Spagnoli, cicli monografici che ne hanno ripercorso il cammino poetico e drammaturgico. Una studiosa come Antonia Lezza, cosi come Maurizio Zanardi e le edizioni Cronopio, hanno condotto con lui importanti seminari. Con lui Teatri Uniti si è accompagnato in una intensa collaborazione e sintonia. Accanto a lui si è formato fin da ragazzino un giovane attore-regista che ora ne raccoglie l’eredità: Giuseppe Affinito.
Insomma è come se intorno alla presenza di Enzo Moscato una intera comunità d’arte, proprio come un’orfica consorteria, si sia raccolta nel tempo per amplificarne la voce e lo sguardo. Quello stesso sguardo che possiede il coraggio e la sensibilità vibrante di scrutare dentro la bellezza e l’orrore della vita, affondarvi la lama di rasoio per trarne un canto che si fa grido, e un urlo che si fa soffio, così che dal buio fondo possa accendersi una luce che abbaglia, facendo risonare un verbo poetico che suda sangue fino a decantarsi in un arabesco sonoro, in un geroglifico, in una evocazione misterica. Perché i poeti non muoiono e, trascinato dalle onde del mare del tempo come la testa recisa di Orfeo, Enzo Moscato continuerà a farci ascoltare, ancora e sempre, il suo canto orfico.
Riferimenti bibliografici
E. Fiore, Il rito, l’esilio e la peste. Percorsi nel nuovo teatro napoletano: Manlio Santanelli, Annibale Ruccello, Enzo Moscato, Ubulibri, Milano 2002.
J. Hillman, Figure del mito, Adelphi, Milano 2014.
L. Libero, Dopo Eduardo. Trent’anni di nuova drammaturgia a Napoli, Apeiron, Napoli 2018.
E. Moscato, L’angelico Bestiario, Ubulibri, Milano 1991.
Id., Gli anni piccoli, Guida, Napoli 2011.
Id., Ritornanti, Cronopio, Napoli 2017.
Id., Archeologia del sangue (1948-1961), Cronopio, Napoli 2020a.
Id., Tà-Kài-Tà, Edizioni Editoria &Spettacolo, Napoli 2020b.
Enzo Moscato, Napoli, aprile 1948 – Napoli, gennaio 2024.