Fra i più grandi melodisti della popular music americana di sempre, Burt Bacharach è stato un hit-maker prolifico e straordinariamente longevo, capace di scalare le classifiche (e dunque di interpretare e influenzare il gusto di pubblici molto vasti) in decenni musicalmente molto diversi tra loro, dagli anni cinquanta degli esordi fino agli anni novanta, quando realizza un album monumentale con Elvis Costello, Painted from Memory; per non parlare del presente, in cui la sua opera si ripresenta non di rado nella forma del sample in brani di altri artisti. Basti pensare che la sua prima hit è datata 1957 (The Story of My Life, puro pop mascherato da country interpretato dalla voce baritonale di Marty Robbins) e la sua ultima è What’s Free di Meek Mill, brano rap del 2018 che contiene un campione di Close to You del 1970. Noto a chiunque abbia trascorso anche pochi minuti della vita di fronte a una radio accesa, Bacharach è molto conosciuto anche dagli appassionati di cinema, che sono usciti tante volte da una sala canticchiando i suoi successi, come Raindrops Keep Fallin’ on my Head da Butch Cassidy (Roy Hill 1969) o Arthur’s Theme da Arthur (Gordon 1981).

Il profilo di Bacharach è quello di un autore di canzoni in un sistema imprenditoriale declinante denominato Tin Pan Alley, con sede a Broadway nel Brill Building. Si tratta di una sorta di “fabbrica delle canzoni” che avviò le attività negli ultimi decenni del XIX secolo e proseguì con fortune alterne almeno fino al 1960. Bacharach vi accede come libero professionista, prendendo in affitto un ufficio nel palazzo: ha una trentina d’anni, proviene da una famiglia di ebrei che si è stabilita a Forest Hills e ha ricevuto un’educazione musicale solida, studiando composizione e teoria musicale presso istituzioni di grande prestigio; fra i suoi insegnanti, si devono citare i compositori modernisti Darius Milhaud alla McGill e Henry Cowell alla New School for Social Research (la stessa scuola in cui insegnava John Cage). Il suo strumento è il pianoforte, la sua passione è il be-bop e dopo il servizio militare si è stabilito a Broadway per suonare nei club, accompagnando cantanti jazz e pop di successo. Al Brill conosce l’autore di testi Hal David, che scriverà con lui la maggior parte delle canzoni del suo vasto repertorio; ma in questi stessi anni continua anche a suonare nei club come pianista per Marlene Dietrich, con cui forma un sodalizio stabile tra il 1958 e il 1961.

Gli anni sessanta sono lo sfondo dell’ascesa inarrestabile di Bacharach, capace di puntare su interpreti poco affermati come Dionne Warwick e portarli al successo, ma anche di entrare a Hollywood dalla porta principale, firmando canzoni e partiture per Ciao Pussycat (Clive Donner, 1965), Alfie (Lewis Gilbert, 1966) e James Bond 007 – Casino Royale (John Huston, Kenneth Hughes, Val Guest, Robert Parrish, Joseph McGrath, 1967). In questo decennio Bacharach fissa le coordinate di un modello di scrittura che è oggetto di imitazione costante eppure resta sostanzialmente irriproducibile. Il punto è che la melodia, in superficie, distoglie l’attenzione dalla struttura armonica; sembra un gioco semplice, alla portata di tutti, e infatti – come nota Mihai Cucos in uno dei pochi saggi scientifici su Bacharach – questa musica riceve l’etichetta di genere Easy Listening. Ma la costruzione armonica è invece profondamente originale (e tutt’altro che facile). Si prenda una celebre film song come Alfie. Michael Caine ha appena terminato il suo monologo finale guardando in macchina, con la frase «What’s it all about? You know what I mean», poi si volta verso il cagnolino che attraversa il ponte. Non appena l’attore si volta, ha inizio la canzone di Bacharach/David, interpretata da Cilla Black (sebbene fosse pensata per Dionne Warwick), il cui primo verso è proprio «What’s it all about?». La macchina da presa, su dolly, sale in verticale abbandonando il fatto narrativo ormai compiuto in favore dell’opzione descrittiva, offrendo un panorama del londinese Waterloo Bridge; la canzone prosegue sui titoli di coda.

Come osserva Marcel Cobussen, Alfie può sembrare un brano jazz convenzionale, con una struttura costituita da 32 battute suddivise in quattro blocchi da 8, il primo e il secondo identici al quarto, ma non è così: in Alfie ogni blocco ha un numero di battute differente e il quarto non ripete la frase dei primi due. Come se non bastasse, lo special è assolutamente insolito nei cambi di accordi, e in generale la struttura risulta configurata per non consentire alterazioni interpretative e improvvisative, al contrario di molti brani che diventano standard jazz. Non è un caso che pochi eletti si siano misurati con l’esecuzione di Alfie, primo fra tutti il cerebrale pianista Bill Evans. Anche la melodia di Alfie non è da meno in termini di complessità, rifuggendo simmetrie e proponendo all’ascoltatore di considerare la cadenza nient’altro che un’eventualità o addirittura un’allucinazione. Lo stimolo a non stare nei ranghi giunge certamente dal processo di scrittura di Bacharach/David, che prevede prima la realizzazione del testo e poi della musica: in questo modo, Bacharach si pone il testo come problema, come vincolo metrico, e da qui vengono fuori le geometrie di brani come Alfie, di cui il grande Miles Davis, incontratosi con il compositore, disse: “Hey man, that’s a very good song”.

Riferimenti bibliografici
M. Brocken, Bacharach: Maestro! The Life of a Pop Genius, Chrome Dreams, New Malden 2003.
M. Cucos, A few points on Burt Bacharach, «Perspectives of New Music», Vol. 43, No. 1, Winter, 2005.

Burt Bacharach, Kansas City 1928 − Los Angeles 2023.

Tags     Burt Bacharach, Musica
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