Antonio Rostagno, professore di Storia della Musica amatissimo dai suoi studenti e musicologo instancabile, ci ha lasciato lo scorso primo ottobre. Sino all’ultimo ha continuato a studiare, a leggere, a progettare, perché il suo spirito curioso e appassionato non ha mai smesso di amare la musica, e in generale la cultura e la conoscenza. Ha portato nel proprio cuore tutti coloro che l’avevano amato sin dal primo incontro, conoscendolo magari solo per un breve colloquio, o una lezione ascoltata seduti per terra, fuori dalla porta dell’aula perché non si riusciva ad entrare a causa del grande afflusso. Dante gli ha tenuto compagnia fino all’ultimo, in un anno così importante di celebrazioni e festeggiamenti. Anche Verdi è stato il suo conforto fino alla fine: un musicista (e un uomo) tra i più amati da Rostagno, indagato per un’intera esistenza non solo nella sua produzione operistica, ma anche nelle sue visioni teatrali, nel pensiero politico, nella tentazione metafisica, nel pessimismo degli ultimi anni. Le melodie verdiane gli hanno tenuto compagnia, e nell’eleganza austera e riservata con cui se n’è andato si è ricongiunto idealmente alla personalità e allo stile del compositore prediletto.

Ho conosciuto Antonio Rostagno dieci anni fa, appena ventenne. Fresco di studi musicali presso il Conservatorio di Roma, mi ero iscritto a Lettere, per seguire il mio secondo amore dopo la musica. Ero convinto che la musicologia sarebbe stata per me soltanto un ripasso di quanto già fatto in Conservatorio: ed invece incontrai una comunità appassionata ed eterogenea, fatta di docenti, giovani ricercatori, studenti, e tante figure eterodosse e non classificabili, che studiavano la musica in dialogo costante e perpetuo con tutte le altre discipline storiche, artistiche, culturali.

Giovane studente di Triennale, scelsi di seguire il corso di Antonio Rostagno sulla figura e l’opera di Mozart: Antonio saltava per l’intera lezione dal computer al pianoforte, dalla pedana alla libreria, parlando della melanconica fame di conoscenza di Don Giovanni (colui che vuole conoscere tutto mediante i sensi, ci diceva), della vocazione illuministico-massonica di Mozart e Da Ponte, di come il criticismo kantiano stava permeando le forme musicali e le tecniche compositive di quell’epoca storica. Sbuffava quando non gli veniva bene un passaggio al pianoforte, sorrideva quando vedeva delle mani alzate per fare domande, si arrabbiava quando i cantanti del Dvd che ascoltavamo non facevano quello che lui aveva spiegato sino a quel momento. All’esame facemmo amicizia, per la prima volta; mi prese il documento di identità e mi disse: “Lei deve continuare a studiare qui da noi, sia chiaro, ma cambi la foto sul documento…sembra un brigatista!”. Mi laureai con lui sia alla triennale che alla magistrale, in drammaturgia musicale, la materia che insegnava con più passione e trasporto.

L’Unità d’Italia, il Risorgimento, l’opera italiana dell’Ottocento e in particolare il melodramma verdiano, erano gli argomenti su cui stava lavorando di più in quegli anni: ma tutto l’appassionava, in un impeto vorace e curioso, senza tregua, che lo portava a leggere e interpretare libretti, partiture, gioielli nascosti in qualche archivio musicale, trattati politici, opere filosofiche, la grande letteratura e la grande poesia del passato. Da Mazzini a Manin, da Leopardi a Manzoni, da Ponchielli a Boito, da Piave a Cammarano, era informato su ogni aspetto critico, filologico, storico-culturale che riguardasse artisti e intellettuali del periodo storico al centro del suo studio. Un pomeriggio mi spiegò la differenza tra il pessimismo di Nietzsche e quello di Schopenhauer come nessuno era riuscito mai, tenendomi incollato alla sedia per diverse ore, e facendomi appena capire in quale universo meraviglioso e complesso si collocavano le opere musicali che studiavamo con passione profonda. Nessuna opera d’arte, nel pensiero di Rostagno, poteva essere separata dalla mentalità, da quello che lui chiamava il “non-cosciente collettivo”, che l’aveva generata e nel cui alveo era stata creata, prodotta, performata.

Negli anni del dottorato siamo diventati migliori amici. Perché questo era Rostagno per tutti gli studenti e i giovani ricercatori come me che hanno avuto il privilegio di studiare con lui: un punto di riferimento sempiterno, un secondo padre, cui chiedere consiglio, con cui sfogarsi, cui confidare le proprie paure e i propri timori, i sogni, gli amori, le aspettative, le speranze. Ovunque mi girassi, ero sempre con lui: si trattasse di un convegno, di una presentazione di un libro, un seminario dottorale, una lezione sull’opera fatta nelle scuole della periferia romana o in qualche biblioteca sperduta, nei caffè letterari o nelle più prestigiose istituzioni musicali. Non si perdeva un concerto, e neanche una conferenza: quando parlava in qualità di relatore il suo intervento era sempre illuminante, polemico, dialettico, mordace, e ci spingeva ad andare oltre, ad abbattere i confini e a guardare la musica nel più ampio paradigma della storia culturale.

Antonio ci faceva compagnia anche nella vita quotidiana: indimenticabile una giornata passata con il collega Emanuele Franceschetti a preparare tre convegni differenti, ognuno chino sul proprio computer ma sempre insieme, dalla biblioteca a casa, condividendo un pranzo, prendendo un caffè, passeggiando per Roma per schiarirci le idee. E non posso non menzionare una festa di compleanno, piena di ragazzi e ragazze di facoltà diverse, ognuno con la propria storia e il proprio vissuto: Antonio era presente, si divertiva con noi, ma dava del lei a tutti, e parlava di Verdi, di Beethoven, di Cartesio, di Hegel, e di come la musica stava cambiando nel mondo postumano, dominato dal nuovo idolo delle tecnologie digitali.

Prima di ammalarsi aveva tre grandi sogni: un convegno-laboratorio su Leopardi e la musica, insieme agli amici italianisti; un libro, praticamente completato, sulla musica degli ultimi trent’anni, per cui aveva letto tutta l’antropologia, la sociologia e la filosofia contemporanea rintracciabile nel mondo intero; un ultimo libro, il suo commiato al mondo accademico, sul pensiero politico e artistico di Verdi e Wagner. Ma credo, anzi ne sono certo, che avesse per tutti noi una miriade di progetti e idee, e quando apriremo i suoi cassetti, le sue cartelle, i suoi files, troveremo una miniera d’oro che ci terrà compagnia per tanti anni a venire, indicandoci la strada. Perché Antonio era così, credeva nel valore catartico della musica, nella bellezza inossidabile del pensiero musicale, e nel progresso culturale ed emancipatorio che nel corso dei secoli aveva donato all’umanità. Mancherà così tanto il suo sorriso, la sua gentilezza, la sua umiltà ironica, la sua presenza costante a qualsiasi ora del giorno (e della notte, se avesse potuto) in università.

Il grande insegnamento che ci lascia è quello di cercare ancora, studiare sempre, creare idee nuove e abbattere ogni confine accademico-disciplinare: contro ogni dismissione o rassegnazione, perché la musica era la sua vita e deve continuare ad essere la nostra, quella di tutti noi. Antonio aveva scelto di stare dalla parte degli studenti, dalla parte di chi ancora vuole imparare e stupirsi, senza mai accomodarsi in cattedra convinto di essere completo. Ed era certo che nella storia della musica abitano i nostri amori, le nostre battaglie, la nostra umanità: è la nostra storia, una storia di tutti.

Antonio Rostagno, Imperia 1962 – Roma 2021.

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