È difficile, temo, spiegare a un giovane d’oggi una figura come quella di Adriano Aprà, e sarebbe invece utilissimo. Aprà è stato nello stesso tempo uno dei migliori storici del cinema italiano (il migliore, secondo alcuni, se hanno senso le classifiche che lui tanto amava) e uno dei migliori critici che il nostro Paese abbia dato. L’una cosa insieme e grazie all’altra: il suo percorso ci ricorda quanto, negli anni dell’irrobustimento e irrigidimento metodologico dell’accademia, le cose più durature siano state quelle provenienti da una cinefilia che innestava pratica critica e ricerca filologica (e penso all’opera di un altro grande, Alberto Farassino). 

Aprà ha mantenuto per tutta la vita una passione totale per il cinema, e sapeva anche tutto di archivi, varianti, formati, copie. Quando ci si metteva a studiare un autore si scopriva che lui se ne era già occupato prima e meglio: fosse Soldati o Freda, Germi o gli scritti di cinema di Moravia e di Pratolini… Era critico anche quando era storico: adorava le classifiche, gli elenchi e aveva le sue predilezioni sempre militanti anche quando guardava il passato (amava Freda e non Bava, Germi e Risi ma non Monicelli, Blasetti, ma non molto Fellini – e lo dichiarava). Critico e storico, lo è stato non solo scrivendo sul cinema presente e quello passato o realizzando minuziosi documentari (su Rossellini, su Il conformista), ma anche lavorando come programmatore di cineclub (il Filmsutudio negli anni ’70), curatore di leggendarie retrospettive (Hawks e Mizoguchi a Venezia), direttore di Festival (Salsomaggiore, Pesaro), conservatore della Cineteca Nazionale, docente universitario per un breve periodo. Ed è prodigiosamente riuscito, in tutte queste vesti, a non essere mai uomo di potere. Così come non ha mai posato a maestro, anche se ha avuto tantissimi allievi diversissimi tra loro. Ma più che allievi, direi, qualcosa di meglio: gente che aveva avuto qualcosa da lui, e gli era grata.

Era una figura fuori e al di sopra dei giochi, autorevolissima e fraterna insieme; già un fratello maggiore per quella che è stata forse l’ultima generazione cinefila in senso stretto (i nati negli anni ’50, cresciuti nei cineclub e che hanno cominciato a scrivere negli anni ’70), e in fondo tale è rimasto. Mai in cattedra, sempre bramoso di dialogo anche polemico, austero ma generoso e curioso, come mostra anche la sua ultima impresa, “Fuorinorma”, rassegna aperta (fin troppo forse) a quanto si muoveva nel cinema italiano indipendente. Il gesto inaugurale, con un gruppo di amici, era stato l’uscita da “Filmcritica” nel ’66 (in seguito a un articolo di Armando Plebe, all’epoca prestigioso intellettuale PCI poi missino, di ironica apologia del cinema popolare) e la fondazione di “Cinema & Film”. Che, come la sua rivista rivale e gemella “Ombre rosse”, durò poco, 9 fascicoli dal ’66 al ’70, ma riuscì a definire un’epoca della critica e, rileggendone i numeri, le sue sono pagine densissime. (Suo fratello minore, sua versione più visionaria e lirica era, all’epoca e negli anni successivi, il grandissimo Enzo Ungari, scomparso a 36 anni.)

A voler scegliere una recensione esemplare, non la più bella ma la più estrema, dell’Aprà di “Cinema & Film”, mi viene in mente quella di Cronaca di Anna Magdalena Bach, semplice elenco di elementi intervallati da parentesi: «Un film sull’amicizia (di Straub per il suo spettatore). Un film sull’amore coniugale (di Bach per Anna Magdalena, di Jean. Marie per Danièle…). Un film sulla libertà (inq. 65, Bach: “Non me ne curo minimamente costi quel che costi”). Un film sulla morte» e così via. E alla fine, un paragrafo che si conclude con la frase: “Adesso viviamo meglio”. Una frase che detta oggi suonerebbe ridicolmente fuori tempo, ma che allora significava molto: significava che il cinema era tutto, e contemporaneamente permetteva di andare oltre il cinema.

Come molti veri critici, Aprà ha quasi sempre schivato la monografia. (Per questo sono preziosissimi, anche se temo introvabili, i due volumi antologici Stelle & strisce. Viaggi nel cinema USA dal muto agli anni ’60 e In viaggio con Rossellini, pubblicati da Falsopiano nel 2005-6). È sul saggio lungo che si misura il critico, e forse il suo ritratto si ottiene mettendo insieme, alla Arcimboldo, le sue predilezioni. Il canone di Aprà discende da quello classico dei “Cahiers”, Hawks e Rossellini che generano Godard, e su questo si innesta poi la scoperta del cinema sperimentale americano e soprattutto l’intensissimo dialogo con i migliori registi italiani: Pasolini, Bertolucci, Bellocchio, Ferreri, Schifano, Bene (seguire, accompagnare e scegliere i propri compagni di strada è un’altra attività del vero critico, in fondo) e ovviamente l’oriundo e apolide Jean-Marie Straub, adottato anche fisicamente: appena giunto in Italia, andò a vivere proprio a casa di Aprà, e in seguito i due si guardavano idealmente da lontano. Straub, affacciandosi al balcone del suo appartamento quasi al Trullo, indicava l’orizzonte oltre l’Eur dicendo col suo accento tedesco: «Ecco, lì in fondo vive Aprà». Lo diceva come se fosse un altro avamposto e a quella presenza invisibile fosse collegato da segnali di fumo

Ma quello che dava a tutto una sorta di terza dimensione, direi, era proprio la passione per il cinema del passato, specie italiano. E non per caso, il percorso di Aprà infatti si svolge attraversando una lunga parabola di crisi e contraddizioni, comincia sulle macerie della Hollywood classica e un istante dopo le Nouvelle Vague e una stagione prodigiosa del cinema italiano. È avendo negli occhi il cinema degli anni 50 e dei primi 60 che Aprà fa da traghettatore in altre epoche, in una stagione d’oro della cinefilia e verso una mutazione definitiva.

Man mano muoiono o si ritirano i maestri su cui era cucita la politica degli autori (Aprà esordisce su “Cinema & Film” recensendo il tardo Linea rossa 7000), Godard abiura il cinema e avvia un percorso ondivago dentro-contro-fuori di esso, Rossellini passa alla televisione. Intorno, la centralità della politica costringe a rimettersi in discussione, a diventare adulti. E di lì a poco il cinema diventa tutto secondario, ed è sempre più difficile riversarvi passione. È la stessa difficile posizione generazionale vissuta ad esempio da Serge Daney, che era di quattro anni più giovane: come credere ancora al cinema, e a quale? Ma Daney a un certo punto, coerentemente, mollò il cinema e si dedicò ad osservare i media, facendosi attraverso la critica teorico e filosofo (salvo poi tornarvi, quasi in articulo mortis, con la rivista “Trafic”). La via d’uscita di Aprà è stata diversa: verso la storia e più precisamente verso una storia vissuta con la stessa passione con cui si fa critica, vedendola come qualcosa di vivo, da scoprire e riattivare.

Le sue radici teoriche hanno dovuto fare i conti con questa situazione: una cinefilia che non può più essere ingenua, che rimane fedele sì alla politica degli autori, alla figura del regista, alla supremazia dello stile (gli americani) e alla fiducia ontologica nella realtà (Rossellini), ma si confronta con la “crisi dell’autore” e con la coscienza del cinema come linguaggio e segno (nel primo numero di “Cinema & Film” venivano già citati Metz e Barthes). Questo cortocircuito teorico però crea qualcosa di positivo: la certezza che l’analisi del testo non è contrapposta al suo piacere, ma ne è parte integrante, e che a sua volta la conoscenza storica è alla base dell’analisi del testo. Insomma: sapere serve a capire e capire serve ad amare. Aprà rivendicava la sua posizione commentando i suoi vecchi saggi di Stelle & strisce: «Ho l’impressione (diciamo pure la convinzione) che l’attuale “moda” per le riflessioni più o meno circonfuse di teoria su generi, industria, paratesti, materiali nonfilm […], o i cultural e audience studies nascondano in fondo […] un’incapacità congenita o un imbarazzo diffuso (complice quasi sempre l’accademia) a confrontarsi con l’estetica, con i valori, col “bello”, perché questo significherebbe “complicare” la teoria al punto da dissolverne le troppo spesso fragili fondamenta.»

È difficile, dicevo, spiegare oggi l’importanza di Aprà. Difficile spiegarlo ai maniaci di cinema da blog (spesso ignoranti e onnivori) come ai frigidi giovani studiosi. Rispetto a quasi tutti noi che ci occupiamo di cinema, Aprà sembra sempre più giovane (nella curiosità, nella soggettività, nell’ossessione). Per lui il cinema era davvero una questione di vita o di morte, non solo un gioco o un oggetto di studio impiegatizio. Era qualcosa che dà domande e risposte, che ci mette in gioco e non ci lascia in pace, e che per questo va studiato con il massimo rigore. Qualcosa che, alla fine di una visione, ci permette perfino di esclamare: “Adesso viviamo meglio”.

Riferimenti bibliografici
A. Aprà, Stelle & strisce. Viaggi nel cinema USA dal muto agli anni ’60, Falsopiano, Alessandria 2005.
A. Aprà, In viaggio con Rossellini, Falsopiano, Alessandria 2006.

Adriano Aprà, Roma 1940 – Roma 2024.

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