di STEFANO OLIVA
In ricordo del cantautore.
La figura di Franco Battiato è tra le più singolari della musica italiana. Come è stato detto e scritto in questi giorni, Battiato è stato un “maestro” – questo il termine più ricorrente nei ricordi degli appassionati e degli addetti ai lavori – capace di introdurre nella cosiddetta musica leggera temi, sonorità, riferimenti che travalicano le abituali coordinate della cultura popolare. Il preziosismo dei testi, in bilico tra esoterismo e collage pop, la ricercatezza delle melodie, l’esotismo degli arrangiamenti hanno disegnato un panorama inusuale per la canzone italiana, in bilico tra oriente e occidente, tra lingua e dialetto, tra avanguardia e tradizionalismo. Il fatto che tanti oggi si riconoscano “discepoli” di Battiato suscita una riflessione sul “magistero” del cantautore siciliano. Ma andiamo con ordine.
Le celebrazioni del “Maestro” erano già iniziate per via di un anniversario: i quarant’anni dalla pubblicazione de La voce del padrone (1981), disco di svolta nella carriera del cantautore siciliano. Non una seconda bensì una terza vita, dopo gli esordi melodici negli anni sessanta e le sperimentazioni elettroniche dei settanta (Fetus, 1971; Pollution, 1972; Sulle corde di Aries, 1973). La popolarità degli anni ottanta, dovuta a una felice sintesi tra le esperienze precedenti e una nuova (apparente) accessibilità musicale, conferisce all’enigmatico citazionismo di Battiato (già percepibile in L’era del cinghiale bianco, 1979, e in Patriots, 1980) un definitivo diritto di cittadinanza all’interno della musica italiana.
Cultura alta e bassa, sintetizzatori e arrangiamenti orchestrali, ritmiche serrate e un timbro vocale etereo, salmodiante e inattuale, costituiscono una ricetta vincente che Battiato non avrà paura di mettere in discussione innumerevoli volte, continuando a frequentare territori di frontiera come la musica lirica, la world music, ancora l’elettronica. Ma soprattutto il successo non implica alcun conformismo: il pop più orecchiabile, infatti, si fa portatore di una sferzante critica sociale e politica, talvolta non esente da un certo gusto elitario che però, inaspettatamente, incontra il favore di un pubblico sempre più vasto. A tutto ciò si associa una costante ricerca spirituale che, in maniera ancora più evidente dalla fine degli anni ottanta (Fisiognomica, 1988), accompagnerà sempre, come un sentiero parallelo, il percorso artistico di Battiato. Il sodalizio con il filosofo Manlio Sgalambro, autore dei testi delle canzoni a partire dall’album L’ombrello e la macchina da cucire (1995), caratterizza la produzione degli anni novanta, in cui spiccano L’imboscata (1996, l’album de La cura) e Gommalacca (1998, in cui si trova Shock in my Town). Gli anni Duemila vedono Battiato impegnato non solo sul fronte discografico ma anche su quello cinematografico, come regista di Perdutoamor (2003), Musikanten (2006) e Niente è come sembra (2007). L’ultimo album, Torneremo ancora (2019), vede l’incontro tra alcuni dei maggiori successi di Battiato e gli arrangiamenti della Royal Philharmonic Orchestra di Londra, e regala agli ascoltatori l’omonimo brano inedito, vero e proprio commiato del cantautore catanese.
Il tributo unanime al magistero di Battiato dimostra il grande affetto del pubblico e la penetrazione di un lavoro complesso, ricco di influenze musicali e di rimandi letterari, tra ascoltatori solitamente distanti da prodotti eccessivamente sofisticati. Eppure in quel titolo di “Maestro”, da Battiato accettato controvoglia se non addirittura rifiutato, si nasconde un indizio dei meccanismi che hanno consacrato il musicista siciliano come uno degli artisti più emblematici della musica italiana. Chi si sente discepolo di Battiato offre un culto che eleva in primo luogo l’adoratore: apprezzare Battiato, soprattutto ricordandone la produzione più colta e sperimentale, vuol dire in primo luogo “capire Battiato” (come dicevano i Bluvertigo nella canzone L’assenzio, 2001, inserendo questo sforzo di comprensione in una ironica lista di cliché).
E capire Battiato vuol dire sentirsi parte di una cerchia di iniziati, di una setta, ma non ristretta bensì ampia e popolare, tenendo conto che – secondo un celebre verso di E ti vengo a cercare – tra il popolare e il divino sì dà costantemente una possibilità di transito, di derivazione, di rimando. In questo meccanismo non c’è niente di male, a patto che il conferimento del titolo di “Maestro” non costituisca un alibi per ingessare il lavoro di un artista dispensandoci dall’ascoltare, dal leggere, dal vedere. Se Battiato è stato un maestro, lo è stato non insegnandoci a fare quello che lui ha fatto (molti, in effetti, gli epigoni dell’artista), ma a fare come ha fatto. Con grande libertà, in maniera sempre indipendente, senza paura del politicamente scorretto (che determinò la fine della sua breve esperienza politica come assessore alla cultura nella giunta regionale siciliana guidata da Rosario Crocetta) e senza smania di successo. Soprattutto, con una notevole disinvoltura nel muoversi in ambiti diversi come la musica, la spiritualità (ricordiamo il suo libro Il silenzio e l’ascolto. Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, Castelvecchi, 2014), il cinema, le arti figurative, con risultati alterni, senza il pudore di nascondere le passioni – talvolta anche velleitarie – che animavano la sua ricerca.
Altro insegnamento da tenere a mente, in un’epoca di sedicenti autodidatti, Battiato ha sempre cercato maestri, da Karlheinz Stockhausen (!) a Giusto Pio, da Manlio Sgalambro a Raimon Panikkar. Maestri non ideali, cui destinare un riconoscimento meramente formale, ma guide da seguire, con cui condividere una pratica, insieme ai quali percorrere effettivamente un tratto di strada. E in questa ricerca, costeggiando i territori della mistica, Battiato ha mostrato con singolare chiarezza il cuore religioso – ma non confessionale – della post-modernità, la ricerca di senso, il desiderio di trascendenza.
Oltre alla musica, rimangono i silenzi di Battiato, non meno espressivi della sua voce. Due episodi: il concerto in memoria di Fabrizio De André (2000) e l’esibizione davanti a papa Giovanni Paolo II (1989). Cantando Amore che vieni, amore che vai, di cui aveva già offerto un’interpretazione nel disco antologico Fleurs (1999), la voce di Battiato viene sopraffatta dall’emozione e si rifugia in un gesto silenzioso, pudico, di abbandono. Molto simile a quello di qualche anno prima mentre seduto, come era solito, su un tappeto orientale intonava E ti vengo a cercare di fronte al pontefice in aula Nervi. In entrambi i casi la parola viene meno, la commozione spegne la voce e viene sostituita da un gesto delle mani che forse dirigono, forse seguono l’andamento musicale. In un caso l’amore umano raccontato da De André, nell’altro l’afflato spirituale che toglie il respiro (come disse, a proposito di quell’episodio, lo stesso Battiato).
È forse questa la cifra del magistero di Franco Battiato, l’inimitabile impasto di sacro e profano, popolare ed aristocratico, arcaico e contemporaneo che ha conquistato tanti. L’opera di Battiato, che è in primo luogo il precipitato di una tensione al tempo stesso musicale, culturale e spirituale, non può essere replicata né vuole essere musealizzata, così come non sopporta di essere ammansita ed inserita nell’antologia della canzone italiana. Se la musica, la voce e i silenzi di cui è intessuta la sua opera riusciranno a suscitare in noi, suoi appassionati ascoltatori, una simile tensione, al di là dei diversi campi in cui avremo il coraggio di spingerci, allora avremo appreso la lezione di Battiato.
Franco Battiato, Ionia 1945 – Milo 2021.
Stupendo!!!!
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Condivido in pieno l’ottima analisi di Stefano Oliva! Complimenti!!