Appartato, schivo, solitario. Morto a 41 anni non ancora compiuti, tre libri pubblicati in vita (I ventitre giorni della città di Alba, 1952; La malora, 1954; Primavera di bellezza, 1959) e un tesoro copioso, nei cassetti, pubblicato postumo negli anni e comprendente, tra l’altro, due assoluti capolavori in cui l’esperienza della Resistenza è il centro di una vertiginosa meditazione sull’esistenza: Una questione privata (1963), implacabile e teso, cristallino nella forma, in cui Calvino (1964) riconobbe l’esito tardivo e più compiuto, per una intera generazione di scrittori, della rappresentazione della Resistenza, e Il partigiano Johnny (1968), che darà vita a una complessa vicenda filologica, arduo e debordante, abitato da un incandescente, trasfigurante plurilinguismo. È, quello appena abbozzato, un ritratto, scheletrico e malcerto, di uno dei maggiori scrittori del Novecento italiano, Beppe Fenoglio, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita.

“L’inglese di Alba”, lo si è spesso ricordato, amava il cinema, che a diverso titolo è più volte evocato nei suoi libri. Di più, e lo si notò subito, la sua scrittura aveva in sé qualcosa, si disse, di immediatamente cinematografico: già Calvino, lettore, con Natalia Ginzburg, del giovanile La paga del sabato per valutarne la pubblicazione da Einaudi, scrive, del romanzo, nel novembre 1950, a Vittorini: «Quando non è alle prese con una situazione psicologica, fa del cinema, ma del buon cinema credo» (Calvino 1991, p. 34). E Vittorini – che pubblicherà I ventitre giorni e La malora nei suoi “Gettoni” (numero 11 e numero 33 della collana), parlerà, a proposito del primo, di «un’evidenza cinematografica». E tuttavia prima, anche e soprattutto per questa marcata inclinazione ai modi del filmico della scrittura fenogliana, che in questo caso gli era apparsa quasi totalizzante, lo stesso Vittorini aveva infine respinto La paga del sabato (che sarà pubblicato soltanto nel 1969), convincendo il suo giovane autore a derivarne un paio di racconti, che avranno posto nei Ventitre giorni.

Sarà solo negli ultimi anni della sua vita, tuttavia, che Fenoglio aprirà esplicitamente al cinema, che era andato a bussare alla sua porta: nel tempo in cui si dà l’ideazione di Una questione privata, Giulio Questi, già partigiano come lui, che ha letto e amato Primavera di bellezza (Pedullà 2014, p. VI), gli richiede una sceneggiatura, di argomento resistenziale, per un film. I due si incontrano ad Alba nel gennaio del 1960 e poco tempo dopo Fenoglio invia a Questi un soggetto prossimo a quella che sarebbe stata la prima delle tre stesure di Una questione privata. Il progetto rimane in sospeso e non si concretizza. Più tardi, all’inizio del ’61, sempre nella sua città, Fenoglio conosce Gianfranco Bettetini, durante le trasmissioni di “Campanile sera”, del quale il secondo cura la regia – e nel quale la città resta impegnata per cinque giovedì consecutivi (Bosca 2014, p. 175) – e in collaborazione con lui (ma è coinvolto anche Morando Morandini), per iniziativa dell’allora giovane regista televisivo, tra il ’61 e il ’62, attorno alla vicenda che informerà il racconto postumo Ferragosto, compreso in Un giorno di fuoco (1963), lavora al progetto di una sceneggiatura (Fenoglio 1978, pp. 420-453, 734-787), che resterà incompiuta.

Dopo la morte dello scrittore (1963), il cinema e, in modo assai insistito, la televisione, con notevole regolarità nel corso dei decenni e con particolarissima attenzione per Una questione privata (che dalla metà degli anni sessanta agli anni dieci del nuovo millennio è oggetto addirittura di cinque adattamenti, uno dei quali relativo a un singolo episodio del romanzo), guarderanno alla scrittura fenogliana. Si comincia con Una questione privata (1966), lungometraggio realizzato a tre anni di distanza dalla scomparsa dello scrittore, presentato alla IV Rassegna Cinematografica Internazionale “Dalla Resistenza alla nuova frontiera” di Cuneo (già Festival Internazionale dei film sulla Resistenza), sceneggiato, montato, diretto, prodotto da Giorgio Trentin, girato nelle Langhe con pochissimi mezzi, «volenteroso» e onesto, ma «afflitto – dice Micciché – da un quasi spettacolare dilettantismo culturale e cinematografico» (Micciché 2002, p. 308). Dentro/Fuori (1972), mediometraggio di Nereo Rapetti, sceneggiato dal regista assieme a un allora ventottenne Alberto Farassino (mentre un ventiquattrenne Aldo Grasso figurava addirittura tra gli interpreti), realizzato nell’ambito dei Programmi Sperimentali della Rai, nella Serie “Autori nuovi”, è invece tratto dal racconto fenogliano Nella valle di San Benedetto, inedito fino al ’69, cupa vicenda resistenziale in cui un partigiano trova rifugio in una tomba per sfuggire ai tedeschi. Fu tramesso sul secondo canale nel novembre del ’72, presentato da Italo Moscati (e recentemente, nel 2019, è stato riproiettato presso la Sala Proiezione Rai di Torino e introdotto da Grasso).

Del 1974 è La torta di Riccio, di un regista importante quale è Vittorio Cottafavi, che è il secondo dei tre episodi che compongono il televisivo Gente delle Langhe, ideato (e sceneggiato col regista) da Davide Lajolo. L’episodio è tratto dal penultimo capitolo di Una questione privata, quello della fucilazione del quattordicenne Riccio, staffetta partigiana (gli altri due episodi, sempre diretti da Cottafavi, sono L’eremita, dall’omonimo racconto di Pavese e Incontro con il padre, da Come e perché di Lajolo). Programmato all’interno della TV dei ragazzi, in fascia pomeridiana, Gente delle Langhe è stato trasmesso una sola volta, un episodio alla settimana, nell’ottobre del ’74. I primi due episodi, dunque anche quello fenogliano, risultano perduti, mentre recentemente “Fuori Orario” ha ritrovato e trasmesso (settembre 2020) il pezzo conclusivo, quello tratto da Lajolo (il quale ha lasciato tra le sue carte una sceneggiatura, sorta di riscrittura sceneggiata del romanzo, incompleta e per anni inedita, de Il partigiano Johnny, Lajolo 2006).

Di tre anni successivo è il diseguale ma assai interessante sceneggiato in due puntate La paga del sabato (1977), diretto dallo specialista Sandro Bolchi, dall’omonimo, già citato romanzo  dell’autore piemontese, con Lino Capolicchio nel ruolo di Ettore e Jenny Tamburi in quello di Vanda (e con un intenso Nino Pavese nei panni del padre del protagonista). Del romanzo conserva il carattere duro e asciutto, riproducendo in modo letterale gran parte dei dialoghi. Bolchi aggiunge e sottrae ma soprattutto interpreta, con umiltà e accuratezza, il testo di partenza, talora smussandone le asperità più puntute, e assai più di quanto non accadesse in quello richiama in modo esplicito, non sempre aggraziato, il cinema americano e le sue forme generiche.

Le due successive, non felici, riduzioni di Una questione privata sono i film televisivi omonimi rispettivamente diretti da Alessandro Cane (1982) e da Alberto Negrin (1991, trasmesso su Rai Uno nel 1993). Del primo si ricorda soprattutto un buon lavoro sul paesaggio (è stato girato non attorno ad Alba, ma nell’Alta Langa), ma anche il peso di una recitazione complessivamente inadeguata; del secondo, sceneggiato dal regista con Raffaele La Capria e Paolo Virzì, musicato da Nicola Piovani, con Rupert Graves nel ruolo di Milton (e ruoli per Luca Zingaretti, che interpreta Sceriffo, e per un giovane Pierfrancesco Favino, al suo esordio assoluto nei panni di Ivan), la sostanziale dimensione illustrativa. Ma le riduzioni fenogliane più note, e ad evidenza più compiute, tratte dai due romanzi maggiori dell’autore, sono le due realizzate in anni più vicini ai nostri. Non possiedono, in entrambi i casi, la densità né la potenza delle opere d’origine e tuttavia, pure nelle differenze, anche molto marcate, che per impianto, modi della composizione e atteggiamento delle forme le separano, presentano tratti comuni nella cura con cui si misurano con il lavoro dello scrittore albese. Si tratta evidentemente dei film Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa e Una questione privata (2017) di Paolo Taviani, l’ultimo (per ora) dei numerosi adattamenti audiovisivi che il romanzo ha conosciuto.

Se è vero, come sopra ricordavo, che la prosa fenogliana porta fin da subito in sé, sotto il segno della concretezza e della rapidità, quella che si direbbe una allure cinematografica, è altrettanto vero, ha ragione Pellizzari (2001, p. 33), che è difficile pensare a qualcosa che sia «meno  cinematografabile» della potenza guizzante, proteiforme, contorta, sempre inventiva, della lingua del Partigiano, su cui tanto si è scritto. Un film che volesse confrontarvisi in modo diretto difficilmente potrebbe rinunciare a spingere lungo le linee di una formatività già sempre derealizzante i propri elementi espressivi, dal sonoro alla luce, dal montaggio al colore, ecc. Chiesa, che su Fenoglio ha lavorato a lungo (e a cui ha dedicato il bel documentario Una questione privata. Vita di Beppe Fenoglio, 1998), sceglie di tenersi lontano da ipotesi come questa e invece si concentra con minuziosa attenzione, e con rigore, sulla materia narrativa che non si incarica di illustrare ma che sempre propriamente rifigura, restituendo in definitiva in modo credibile l’universo umano e morale del romanzo. La scelta, felice, dell’interprete principale – la prova di Dionisi è assai rilevante –, l’uso di una fotografia slavata e gelida, il lavoro sul sonoro, spesso scrosciante, frastornante, immersivo, ma soprattutto la capacità di restituire le accensioni improvvise, gli scatti, il ritmo che il romanzo è in grado attivare, in particolare nei brani dominati dai combattimenti, innervano un film non sempre allo stesso modo controllato, ma efficace e soprattutto coraggioso.

Concentrato e teso, pure nelle sue imperfezioni, servito in modo non uniforme da tutti i suoi interpreti, dotato di uno sguardo pienamente consapevole delle sue articolazioni etiche ed estetiche, quale è quello dei suoi autori, girato non nelle Langhe ma prevalentemente in Val Maira, Una questione privata dei Taviani (firmato, come noto, alla regia, dal solo Paolo, per problemi di salute di Vittorio, che sarebbe morto pochi mesi dopo l’uscita del film) agisce con riguardo nei confronti del materiale che accosta, ne conserva non solo o non tanto, come si dice in questi casi, la sostanza narrativa, ma direi soprattutto lo spirito, la tensione morale, la gravità. E insieme esibisce molto marcatamente la spiccata libertà della propria riscrittura, anche qui, non soltanto per via di compressioni, dilatazioni, aggiunte (nel film ce sono un paio indimenticabili), vale a dire di ciò che costitutivamente un qualsivoglia adattamento comporta, né soltanto per via di prelievi dal laboratorio fenogliano nel suo insieme (qui con richiami addirittura al soggetto inviato a Giulio Questi), ma soprattutto attraverso l’idea di concentrare quasi per intero appunto lo spirito del romanzo nel corpo, nel volto, nella voce di Milton, anche (forse soprattutto) grazie alla notevole prova di Marinelli, nervosa, spasmodica, dolente. Ma il segno più netto di quella libertà si situa, non c’è dubbio, nel finale del film, che legge in modo inequivocabile quello, celeberrimo, intenso quanto ambiguo, del grande romanzo fenogliano.

Riferimenti bibliografici
E. Bosca, Fenoglio scrittore per il cinema: la sceneggiatura incompiuta, in “Italianistica. Rivista di letteratura italiana”, n. 2, 2014.
I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, Einaudi, Torino 1991.
Id., Prefazione, in Il sentiero dei nidi di ragno, Garzanti, Milano 1992.
B. Fenoglio, Progetto di sceneggiatura cinematografica, in Id., Opere, vol. III, Einaudi, Torino 1978.
D. Lajolo, Il partigiano Johnny. Riduzione letteraria del romanzo di Beppe Fenoglio, a cura di R. Mosena, CISU, Roma 2006.
L. Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia 2002.
G. Pedullà, Alla ricerca del romanzo, in B. Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 2014.
L. Pellizzari, Fenoglio in guerra: materiale resistente, in “Cineforum”, n. 401, 2001.

Beppe Fenoglio, Alba 1922 – Torino 1963.

*In copertina: Il partigiano Johnny (Chiesa, 2000).

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