In guerra di Stéphane Brizé filma il dibattersi d’un corpo collettivo che sta soffocando, come fosse sul punto di annegare, scalcia, si divincola, si affanna e si ammassa, si afferra, si stringe su se stesso, si compatta e si disperde, protesta fino a perdere il fiato, rivendica i propri diritti (prima di tutto, il diritto al lavoro), pretende l’impossibile, ossia il rispetto dei patti da parte dei padroni: tutto invano, sembra, se non ci fosse a rincuorarci quella massima brechtiana che apre il film, secondo la quale non è tanto importante la vittoria (ovvero la sconfitta) quanto la lotta.
Gli operai della Perrin, fabbrica francese di proprietà tedesca (in realtà, una multinazionale), avevano accettato un aumento delle ore lavorative a parità di salario – già, proprio il contrario del “lavorare meno, lavorare tutti” di sessantottina memoria – in cambio della garanzia del mantenimento del posto di lavoro per almeno cinque anni. Ora invece i padroni si rimangiano la parola, vogliono chiudere la fabbrica, trasferirla in Romania, dove i salari sono più bassi e ci sono maggiori margini di profitto. I lavoratori chiedono il rispetto dei patti, entrano in sciopero, occupano la fabbrica. Comincia un esasperante balletto di trattative “defatiganti”, discorsi, incontri, ricorsi, cortei, manifestazioni, picchetti, dibattiti. Le ragioni degli operai si scontrano con le ragioni del profitto, ma qui ha già luogo una distinzione fisica, quasi antropologica. Non è solo il fatto che gli operai indossano giubbotti (e le operaie vestitini colorati), mentre i rappresentanti padronali vestono sempre in giacca e cravatta: no, c’è qualcosa nella fisionomia di questi ultimi, che potremmo chiamare ipocrisia, ma non è poi che l’arroganza sorridente di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico.
Il fronte operaio comunque sembra compatto, guidato dal sindacalista Laurent Amedeo (Vincent Lindon, unico, eccezionale attore professionista nel film), ma subito viene messa in moto da parte padronale, giocando sulla pluralità delle sigle sindacali, la macchina della divisione: si prospettano “congrue” liquidazioni, e il fronte si sfalda, la compattezza viene meno. Dallo scontro fisico con la polizia che tenta di sgomberare la fabbrica, si arriva allo scontro fisico tra gli operai stessi, col corollario delle solite accuse incrociate, di tradimento da un lato e di massimalismo dall’altro.
Il cinema, di solito, si fa con i corpi, corpi individuali convocati sulla scena del set, in sede di riprese, per essere sottoposti, sullo schermo a un processo di fantasmatizzazione: processo inevitabile, benché si faccia di tutto per nasconderlo o minimizzarlo. Così il cinema passa o passava (prima dell’avvento del virtuale) come arte eminentemente “realistica” che riproduce la verità dei corpi, degli oggetti, degli spazi, dei tempi, e pretende di garantire la sua “verità” mettendo in evidenza specialmente la carta del documentario. In realtà, non è sufficiente girare un documentario perché i corpi davvero “passino” sullo schermo: bisogna essere Dziga Vertov o Wiseman. Oppure, al di fuori del documentario, bisogna essere Dreyer o Pasolini.
Dunque, come filmare un corpo, addirittura un corpo collettivo? Non il corpo d’un singolo lavoratore, o d’un attore, fosse pure Vincent Lindon, che si limiti a interpretarlo (o a incarnarlo), ma il corpo d’una moltitudine, molto diversa da una folla, corpo d’una moltitudine di lavoratori in lotta?
Qui si prospetta la necessità di evocare proprio il concetto ontologico di moltitudine, elaborato da Toni Negri: la moltitudine come immanenza, come insieme di singolarità, sempre produttiva, sempre in movimento, non corpo sociale, ma carne della vita, concetto di classe, da distinguere da quell’astrazione filosofica chiamata “popolo”. Sempre sfuggente, potenza indomabile, capace di rigenerarsi anche dopo una sconfitta, allergica (tra l’altro) alla rappresentanza.
Come filmare dunque questa carne della vita, questo corpo collettivo dalle mille teste? Come, se non in modo informale? Brizé filma quelle mille teste sovrapposte, una che ostacola l’altra, la impalla, la nasconde. Voci che si confondono, si sovrappongono. Prossemica di corpi costretti al contatto ravvicinato. Tra sfocature, panoramiche a schiaffo e microfoni in campo, la macchina da presa mima i modi di ripresa delle attualità televisive, dei reportage col cellulare, dell’usuale registrazione documentaria,anche se poi quasi sempre, come per attrazione magica, finisce per focalizzarsi sulla maschera di Lindon, sdegnata, appassionata e irriducibile.
Benché anch’essa soggetta al nascondimento da parte della moltitudine di teste e corpi, essa emerge con forza, impone la sua flagranza, il peso dei suoi gesti, la rabbia delle parole, dita protese, vena turgida che si gonfia sul collo. È lui, ovviamente, l’irriducibile, l’elemento romanzesco nella verità della cronaca. Capace di gesti d’estrema tenerezza (l’abbraccio in ospedale, dopo la sconfitta, al bambino appena nato della figlia) e subito dopo di estremo, volontario olocausto. Quando questo avviene, finalmente Laurent è solo, è individuo, è (se si vuole) personaggio di finzione, ripreso dal cellulare con un’inquadratura ristretta: la moltitudine è lontana (ma destinata a tornare, a riformarsi).
C’è qualcosa di molto triste, indubbiamente, in queste lotte per il mantenimento del posto di lavoro come estremo residuo di dignità personale. Sentire di non esistere al di fuori del proprio lavoro alienato. Essere merce e non capire, non voler ammettere di esserlo, per non pagare il prezzo della disperazione. Chi lavora è perduto, certo, ma c’è chi non esiste nemmeno, al di fuori del lavoro: il dramma è tutto qui. E allora la citazione brechtiana acquista il suo senso vero. La dignità è nella lotta. La guerra continua, anche se purtroppo ormai si combatte su un terreno favorevole al nemico.
Riferimenti bibliografici
A. Negri, Cinque lezioni di metodo su Moltitudine e Impero, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.