Calvino ha saputo arrivare in anticipo a tutti gli appuntamenti, lo sosteneva Jean Starobinski riferendosi agli scarti e alle intuizioni creative dello scrittore. Per beffa involontaria, dopo le conseguenze di un ictus Calvino è arrivato in anticipo anche all’appuntamento con la morte, avvenuta il 19 settembre 1985 all’età non certo tarda di quasi sessantadue anni. La sua scrittura, soggetta a continui cambi di direzione e declinata su innumerevoli generi e fronti (dalla narrativa alla saggistica, fino alle prove in musica), s’interrompe lì, con la persona. I manoscritti postumi scarseggiano o sono assenti, i progetti incompiuti rimangono avvolti nell’aura di un enigma, finendo persino per assumere i tratti di “testamento”, di sintesi di una parabola artistica.
Così è capitato alle Lezioni americane, sul cui fraintendimento nei termini di un capolavoro saggistico avevano riflettuto in tempo reale Cesare Garboli e poi Franco Fortini, che aveva espresso riserve, politiche e di linguaggio, in un numero del 1990 della rivista “Wimbledon” (e più di recente Claudio Giunta). In quel momento, a metà degli anni ottanta, Calvino è il perno di un mondo letterario in inconsapevole disfacimento: poi, nel volgere di pochi anni, sale al rango di classico che non ha ancora finito di dire quello che ha da dire (seguendo la sua stessa definizione sui classici, appunto), riscritto, reinterpretato eppure stabile in tutti i canoni accademici, editoriali, scolastici.
Però, che cosa succederebbe se per lo spazio di una pagina provassimo a riscrivere alcune bozze di questa storia vera a partire da un’immaginazione narrativa di Calvino stesso? In Il cavaliere inesistente (1959), ultimo episodio della trilogia I nostri antenati, Agilulfo è un cavaliere al servizio di Carlo Magno nella guerra contro i Mori, rivestito dei suoi valori cristiani, della sua armatura, e di nient’altro: perché sotto lo scintillante involucro metallico non c’è nulla, e l’esistenza di Agilulfo si fonda su una convinzione astratta che lo fa muovere e andare per il mondo. All’unico Calvino possibile proviamo ad accostarne mille altri impossibili, che continuano a vivere dopo il settembre 1985, almeno per un po’, in una linea parallela di rilettura della realtà, invece che dei testi: esperimenti narrativi che interrogano da un lato le potenzialità abortite della scrittura tarda di Calvino, e dall’altro la storia della letteratura dei trentacinque anni in cui Calvino non è mai esistito.
Ripensare Calvino dentro un’ucronia è fallimentare almeno quanto partecipare al gioco (ben più giocato) dell’attualizzazione post mortem di Pasolini nell’attualità e nell’arte. Non è comunque il solo parallelo che si possa istituire, in direzione opposta all’idea di Carla Benedetti (per molti versi, come quello della poetica e delle potenzialità performative e transmediali, ancora estremamente valida) di Pasolini contro Calvino.
Come Pasolini, Calvino è scosso dalla modernizzazione coatta dell’Italia del benessere, che spazza via i contorni del paesaggio antropico e naturale per sostituirlo con una confusa colata di cemento, e a partire da questa delusione ripensa criticamente le ragioni della propria militanza nel PCI. Lo si nota in opere di cerniera del realismo calviniano, cominciando dalla Speculazione edilizia (pubblicata in rivista nel 1957, lo stesso anno, per le coincidenze della Storia, delle Ceneri di Gramsci). Lo si riconosce nella comune ricerca di luoghi sospesi che rimpiazzino «l’inferno dei viventi» e suggeriscano alternative impossibili di sopravvivenza, nate dalle macerie del progresso: le utopie (La giornata d’uno scrutatore, Le città invisibili) così come le eterotopie e i mondi intertestuali (Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore) di Calvino; i luoghi di un Terzo Mondo sempre più mentale e sensuale al tempo stesso, su cui Pasolini proietta, all’incrocio di cinema e saggistica, i propri fantasmi.
Altro motivo simmetrico: come Pasolini, sospeso fra progetti di film (quello su San Paolo, gli “appunti” su India e Africa, il soltanto immaginato Porno-Teo-Kolossal) e romanzi-faldone polimorfi e inconclusi (Petrolio), l’ultimo Calvino realmente esistito si distribuisce in una serie di progetti e abbozzi che ne restituiscono l’immagine, con le parole di Francesca Serra, di un «iper-autore, disseminato in una sfilza di progetti senza fine». La versatilità impressionante di Calvino a questo stadio, frutto di un «quarantennale esercizio della penna» (come nota Milanini), getta però un’ombra inquietante, di cui Calvino aveva qualche percezione.
In una lettera a Tullio Pericoli del 28 giugno 1984, scritta per scusarsi di aver declinato con toni bruschi e irritati una sua proposta di collaborazione, lo scrittore si mostra conscio di essere in qualche modo prigioniero di questa sua dispersione: «La mia vita è infestata da periodi di irritabilità e depressione, di cui l’inefficacia nel lavoro è insieme causa e effetto, e quest’anno ne soffro particolarmente. Sono sempre alle prese con scadenze, sottoposto a sollecitazioni da tutte le parti, impossibilitato e forse ormai incapace di concentrarmi».
Se concretizziamo l’ombra, eccoci di fronte un Calvino alle soglie dei settant’anni che, con il millennio alle porte, non riesce più a chiudere un libro. Le iniziative editoriali di un Einaudi ritornata a pieno regime a inizio anni novanta lo assediano oltre le soglie della pensione, mentre il tempo residuo viene risucchiato dagli innumerevoli progetti di collane, molti dei quali naufragati. Di suo pugno appare giusto qualche racconto su rivista, prose brevi per “Repubblica”, per lo più di taglio autobiografico, come se il «rapporto nevrotico» che Calvino ha intrattenuto per tutta la sua esistenza si fosse finalmente risolto – e per assurdo, la qualità della sua pagina si fosse attestata su un livello insolitamente medio per i suoi standard.
Prosegue intanto il lavoro inesausto di scouting sugli scrittori giovani, concorrenziale alle iniziative pop di Pier Vittorio Tondelli (con cui si stabilisce una rispettosa e distante rivalità, interrotta solo dalla morte di quest’ultimo) e al lancio commerciale di Gioventù cannibale nel 1996. L’antologia dell’«orrore estremo» di Daniele Brolli in particolare, per il suo immaginario pulp e il suo cinismo fumettistico di fondo, spinge un Calvino mai particolarmente affezionato alle tinte forti, in una polemica che rimbalza per mesi fra “Corriere della sera” e “Repubblica”, a interrompere i rapporti con l’editore di una vita.
Il lancio di nuovi autori e autrici, già intrapreso da lui nei primi anni ottanta con Andrea De Carlo e Daniele Del Giudice, trova il suo zenit nel patrocinio (editoriale e di capitale simbolico) di una linea narrativa anti-realistica e favolistica, che viene presto definita sulla scia del lavoro culturale di Calvino, con una formula di compromesso, “letteratura strana”. Da qui Mark Fisher parte alle soglie del 2017, quando Calvino è scomparso da circa dieci anni, in un suo celebre saggio su weird e eerie nell’immaginario culturale contemporaneo.
Oppure (“e anche”? nell’ucronia l’abbozzo è più felice del risultato compiuto, e forse possiamo permetterci di non scegliere, sovrapporre almeno in parte un primo Calvino inesistente a un secondo, e un terzo …). Dopo il trionfo americano delle sei Charles Eliot Norton Lectures all’Università di Harvard, che gli garantiscono un successo globale fino a quel momento non pienamente conseguito (in particolare la sesta lezione, Consistency, lo consacra e di frequente finisce per diventare un’epitome dell’intera sua produzione saggistica), Calvino degli anni novanta non solo non porta più a termine un libro: non si ha nemmeno notizia di qualcosa a cui stia lavorando.
Astraendosi dalla lotta per un riconoscimento che non gli serve più, si chiude in un silenzio riappacificato da padre nobile, mentre si rincorrono voci indimostrate di un grande romanzo in preparazione (il primo della sua vita, dopo l’interruzione dei Giovani del Po), una summa dell’opera calviniana su cui si assegnano a scatola chiusa tesi di dottorato e ricerche d’archivio. Invano, perché nessuno riesce a vederne una pagina o a capire di che cosa trattino, cosicché le poche informazioni di seconda mano elargite sapientemente ad Alberto Asor Rosa ed Eugenio Scalfari sono così evocative da far sembrare le carte nascoste di J.D. Salinger e le foto di Thomas Pynchon indegni d’attenzione. Dal centro alla periferia dello stato culturale, si rincorrono le ipotesi sulle ragioni di questo “terzo Calvino”, corroborate da un silenzio ormai perfetto e compiuto.
Il rifiuto delle interviste e la mancanza di apparizioni pubbliche, nell’epoca in cui l’identità d’autore arriva a definirsi non attraverso i libri ma grazie al contorno della presenza mediatica e delle iniziative fuori dal testo, lo rendono quel che non era ancora mai diventato, cioè una figura di culto, capace di sovrastare in un colpo solo Liberato ed Elena Ferrante. Il Nobel per la letteratura, vinto nel 1997 all’ultimo momento contro il favorito Dario Fo, viene rifiutato: non accadeva dai tempi di Sartre, e alimenta la leggenda. La morte nel gennaio 2023, a ridosso delle trionfali preparazioni per un inedito centenario in vita, viene salutata come il congedo dell’ultimo vero intellettuale della sua generazione, e intanto l’irritazione del pubblico più specialistico, dei lettori più affezionati e traditi dal suo silenzio, monta.
Il sospetto di una strategia pubblicitaria (e una certa esasperazione data dalla centralità mai discussa, perfettamente monumentale di Calvino nel pantheon letterario) pone le basi per una ridiscussione critica della persona Calvino, mentre l’opera va incontro al primo declino d’attenzione. Per i successivi decenni, tocca a Calvino ciò che era capitato ad Alberto Moravia, morto trent’anni prima di lui: a poco a poco esce dai discorsi intorno alla “letteratura che si fa” e il successo senza contrappesi non gli viene perdonato. Per riscoprirlo, bisognerà aspettare la fine del Ventunesimo secolo.
Un terzo Calvino non ha mai smesso di scrivere, anche se qualcuno pensa che sarebbe stato meglio. Chi aveva steso le Lezioni americane e Sotto il sole giaguaro promette un profilo di olimpico equilibrio, in grado di sorvolare discipline scientifiche e saperi umanistici, di darci risposte alle sfide tecnologiche e scientifiche del prossimo millennio. Chi meglio dell’autore di Cibernetica e fantasmi, pensa l’opinione pubblica, può fornire un’interpretazione decisiva sulla diffusione di massa dei computer, su Internet e gli smartphone? Ma a Calvino tutto questo non interessa.
Con la consueta insofferenza, che lo ha portato a ogni decennio a rovesciare il tavolo e andare verso direzioni di scrittura che non corrispondono alle aspettative del Partito, del mondo editoriale o di chiunque altro, la prosa calviniana degli anni novanta diviene rarefatta, gelida, con una predilezione per toni psicotici e atmosfere chiuse e disturbanti, rigorosamente nella prima persona che era ancora mascherata dal monologo sorvegliato di Palomar.
Certo, è stato notato da Mario Barenghi che «le figure del carcere, del labirinto, della trappola attraversano come un filo rosso l’opera calviniana […]», e che può stare qui un elemento di affinità con un interlocutore privilegiato come Gianni Celati, la cui letteratura è leggibile anche come un linguaggio di lotta paranoide e sbalestrata contro l’onnipervasività del controllo sociale. Ma Calvino va oltre: i suoi racconti diventano in questa fase evocazioni anti-narrative, deliranti, rigorosamente senza titolo, rilasciate alla pubblicazione con una cadenza annuale disciplinata e ricomposte, nelle costanti ripubblicazioni antologiche, secondo griglie matematiche dal senso non più deducibile, benché di chiara ossessività.
L’accostamento a Thomas Bernhard, uno scrittore scomparso pochi anni prima, viene d’istinto: e del resto, già in una lettera del 14 settembre 1977 in risposta a un questionario della giornalista finlandese Pirkko-Liisa Ståhl, Calvino promuoveva Bernhard come degno vincitore del Nobel per la letteratura, dopo averne letto con attenzione negli anni sessanta Prosa e Amras. Per Bernhard, così Micaela Latini, «il linguaggio è costretto a misurarsi con la sua impotenza: la verità si tramuta in menzogna non appena si cerca di dirla o di scriverla», e con questa convinzione Calvino fino alla fine continua a scrivere, spiazzando una scena letteraria e editoriale che a poco a poco lo stima e lo mette ai margini, lo ristampa smettendo di leggerlo e di invitarlo ai festival.
In questo rumore di fondo gli unici a farsi sentire, stranamente, sono alcuni scrittori in proprio, come Domenico Starnone, Michele Mari, Antonio Moresco, Francesco Pecoraro, Giulio Mozzi. Esordienti fra gli anni novanta e gli anni zero, testimoniano un’influenza tangibile, in grado di convivere alla pari con quelle da altri autori, e hanno in comune due elementi. Il primo è generazionale: sono nati tra l’inizio degli anni quaranta e i primi anni sessanta, vale a dire che sono gli ultimi ad aver letto i libri di Calvino man mano che uscivano, lo hanno potuto tenere presente e ci si sono confrontati, senza formarsi in partenza su modelli tradotti, dal romanzo postmoderno americano alla letteratura sudamericana, non hanno avuto esperienza estetica del cinema e della fiction televisiva di qualità prima del testo scritto, come è capitato a parecchi scrittori nati che oggi hanno meno di quarantacinque anni. Calvino, per loro, è un autore ancora vitale: non un feticcio né un exemplum. Ci si confronta con lui, a volte persino polemizzando (come in Il paese della merda e del galateo di Moresco, che Calvino legge senza replicare), ma lo si tratta come lo scrittore vivo e contraddittorio che, in effetti, ancora è.
In secondo luogo, tutti questi scrittori sono accomunati dal rifiuto di un Calvino esponente della “leggerezza”, che a inizio millennio iuxta Lezioni americane ha ormai un successo incontrastato dalla letteratura per ragazzi alla comunicazione aziendale, e che un Calvino ormai ottantenne, vagamente antisociale e chiuso nelle sue costruzioni narrative di crudeltà e astrazione, confessa con una durezza irrituale di detestare. Per loro Calvino non è lo scrittore dello sguardo aereo, della limpidezza ariostesca e di «ciò che inferno non è», frase che appesta non poche epigrafi dei libri d’esordio dei giovani scrittori in quegli stessi anni.
Il «pathos della distanza», così Cases, di Calvino viene rinsanguato nella generazione dei sessantenni da un continuo richiamo alla corporalità, laddove il gioco di specchi e manierismi del Calvino cosmicomico e combinatorio svela il proprio sottotesto: angoscia della morte, fuga dalla Storia e impotenza del controllo razionale di fronte al caos di ciò che esiste. L’emulazione conflittuale e il superamento agonistico trovano in questi autori una delle continuazioni più felici di Calvino, che vede in loro interlocutori isolati della generazione successiva. Può darsi che Calvino si ritrovasse ispirato da brani come questi due di Vitaliano Trevisan (che muore quindici anni dopo di lui). Il primo viene dalla prosa Quando cado uscita nel primo volume di Standards del 2002 e riflette quell’ansiogena tensione verso il limite non isolata nello scrittore ligure:
L’improvvisa, completa, assoluta sparizione di tutto il proprio peso, accompagnata, anzi, com’è logico, immediatamente seguita, dalla esatta coscienza di quello stesso peso così subitamente perduto. L’allontanarsi veloce e sempre più veloce da una sospensione infinitesima.
Il secondo viene da Treno, incluso nella collezione Shorts del 2004, e sembra tratto di forza da un Palomar meno composto, di allucinazione manifesta:
Ecco, ora dovrei cavarmi di tasca il fazzoletto e salutarla sventolando il fazzoletto, ma non staccai gli occhi dal punto sul vagone. Mi concentrai su quel punto cercando di condensare in quel punto tutto il treno. Quel punto è il treno, pensai. Terrò fermo il punto e paralizzerò anche il treno e lei non partirà. Ci riuscirò, mi dicevo, non è difficile, lo terrò fermo; devo solo concentrarmi il più possibile sul punto. Quanto tempo restai così? Non mi ricordo, ma il punto era sempre fisso davanti a me. avevo avuto sì l’impressione che il treno si fosse mosso … ma non è detto, mi dicevo, non è detto. È possibile che si tratti di una semplice illusione ottica: il movimento, in fondo, è relativo, potrei essermi mosso io. E poi il punto, dunque il treno, era sempre fisso dinanzi a me! Non si è mosso, non si è mosso, mi ripetei, ci sono riuscito, le ho impedito di partire. Mi guardai intorno. Tutto mi parve normale.
Mentre a poco a poco Calvino, alla fine degli anni novanta, smette di scrivere, gli altri continuano: tutti inesistenti al quadrato, perché inventare all’interno di una cornice di realtà (in cui tutti questi scrittori sono davvero esistiti, e “questo” Calvino no) significa mentire almeno due volte. Ma se può sembrare un gioco delle apparenze, nella sostanza plasmare il proprio Calvino inesistente può essere visto quale atto d’amore.
Come Suor Teodora che, raccontando la storia di Agilulfo, rivela di non essere un’osservatrice distaccata, bensì nasconde in sé l’identità della guerriera Bradamante, fortemente implicata nella storia che racconta, così la scrittura di questa immaginazione su Calvino può essere interpretata come un particolare tipo di sguardo: dentro l’armatura del Calvino inesistente ognuno finisce per ritrovare sé stesso. E sceglie di rivolgersi all’opera, quella “vera”, di Calvino parlando anche a sé e al proprio modo di vivere la letteratura e il mondo, «tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro …» (Il cavaliere inesistente).
Riferimenti bibliografici
M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Il Mulino, Bologna 2007.
C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000.
Id., Romanzi e racconti, vol. III, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Mondadori, Milano 2022.
F. Fortini, Non ha mai avuto qualità da romanziere, in “Wimbledon”, 4, 1990.
C. Garboli, Plutone nella rete, in “L’Indice”, V, 10, dicembre 1988.
C. Giunta, Le “Lezioni americane” venticinque anni dopo: una pietra sopra?, in “Belfagor”, 65, 6, 2010.
M. Latini, La pagina bianca. Thomas Bernhard e il paradosso della scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2010.
V. Trevisan, Standards vol. I, Sironi, Milano 2002.
Id., Shorts, Einaudi, Torino 2004.
Italo Calvino, Santiago de las Vegas de La Habana 1923 − Siena 1985.