Alle persone piace pensare di essere
come punti che si muovono attraverso il tempo.
Ma io credo che probabilmente sia il contrario.
Noi siamo fermi e il tempo passa attraverso di noi.
Richard McGuire nel 1989 ha composto una graphic novel dal titolo Here di sole sei pagine, trentasei vignette, composte di scene che si legano l’una all’altra come trame inscindibili di un arazzo, in cui i protagonisti principali non sono soggetti, bensì tempo e luogo, o per meglio dire, scomposizioni frattaliche di questi. Nella recente edizione della Biennale di Venezia dedicata al cinema, ne è stata presentata una versione virtuale diretta dal regista Lysander Ashton. Su stessa dichiarazione del regista l’obiettivo è stato quello di crearne una versione immersiva in cui lo spettatore possa sentirsi parte in causa direttamente coinvolta nella scena.
Il luogo è fisicamente sempre lo stesso, ma allo stesso tempo si tratta di tanti luoghi diversi: questo è possibile grazie ad una felice combinazione estetica fra luogo e tempo che incastona un piano temporale sull’altro rendendo in tal modo evidente la loro appartenenza allo stesso piano di consistenza sostanziale. La visione è (s)composta e riesce a far coesistere due modalità di lettura temporale, due diverse prospettive, incanalate nello stesso risultato grafico: la prima è la prospettiva necessariamente parziale operata dal soggetto umano che riesce a percepire soltanto una certa porzione di piano (quella che lo tocca in maniera diretta) nella quale il tempo è scandito da anni che si susseguono (ognuno separato dal successivo e dal precedente) e la frazione di tempo che li riguarda è solamente quella nella quale assumono espressione sostanziale (l’arco di quelle decine d’anni in cui si manifesta la loro vita); la seconda è quella di un’intuizione onnicomprensiva legata ad un’ontologia del tutto immanente in cui tutto riguarda tutto e nulla risulta inscindibile dal resto. Qui l’individua(bi)lità viene considerata come un luogo di passaggio temporale e la soggettività come una mera incidenza, espressione temporalizzata di uno svolgimento ontologico atemporale. Il fatto che il luogo sia sempre lo stesso sembra essere la modalità rivelativa di questa profonda connessione che viviamo costantemente con ciò che definiamo passato e futuro e che non sono, in fin dei conti, che diverse espressioni della stessa sostanza vitale.
Tramite la condivisione dello stesso spazio non solo diviene possibile, ma addirittura evidente e necessario il fatto che la condivisione riguardi anche il tempo e come le figure umane, presenti in tutta la loro inequivocabile contingenza, si presentino allo stesso tempo come manifestazioni necessarie le une alle altre. Il tempo perde la sua consueta linearità progressiva e mostra i nodi degli intrecci che compongono il luogo, il suo essere sempre presente, più come un piano (le vignette delle tavole) che come una linea, sul quale ogni emergenza puntuale di quei luoghi transitori in forma di corpi umani assume lo stesso valore e si configura come un’increspatura nella quale risuona eternamente ogni connessione della materia. La versione virtuale ha dunque il merito di amplificare sensorialmente la percezione della struttura concatenata dell’opera includendo anche il luogo ed il tempo dello spettatore (oltre quelli dell’opera) e rendendolo parte della scena con maggiore evidenza.
Nello stesso periodo in cui veniva presentato a Venezia l’adattamento virtuale dell’opera di Richard McGuire, usciva su Netflix (4 settembre) l’ultimo film di Charlie Kaufman, Sto pensando di finirla qui. In primo luogo i due lavori hanno in comune il fatto di essere due riadattamenti: così come l’opera di Lysander Ashton è un adattamento virtuale della graphic novel di Richard McGuire, il film di Charlie Kaufman è infatti una riproposizione in chiave cinematografica dell’omonimo libro di Iain Reid. Ma la somiglianza non si limita a questo. Prendendo in esame una particolare sequenza di scene del film (nel libro quella stessa parte è trattata in modo diverso) si nota una fortissima somiglianza rappresentativa.
Le scene in questione sono quelle girate nella fattoria, ossia quelle relative alla visita di Lucy ai genitori di Jake. Nonostante le intenzioni del film, legate a quelle del libro, vadano a parare su fronti narrativi ed interpretativi completamente altri, è innegabile che quella sequenza di scene presenti una struttura estetica incredibilmente simile alla graphic novel di McGuire. I piani temporali si sovrappongono e si intrecciano (senza cornici di delimitazione né anni di riferimento in questo caso) e l’unica prospettiva che emerge è quella globale: non c’è più posto (perlomeno stando alla resa estetica) per le delimitazioni, le parzializzazioni necessariamente operate dal soggetto umano. La manifestazione esplicita ed interconnessa di passato, presente e futuro ed il continuo, scambievole riversarsi compenetrativo di identità fra i personaggi contribuisce a mostrare come la puntualizzazione del presente sia il risultato dell’emersione di tutte le concatenazioni che hanno condotto fin lì e di tutte quelle che si sprigioneranno, tutte racchiuse nello stesso istante che in sé già le comprende e le fa risuonare nel suo stesso atto espressivo (se posto fuori dal taglio oculare definitorio e delimitante dell’essere umano che per sua natura tende più a capire e a circoscrivere che a comprendere).
Non secondario il fatto che tutto ciò sia stato posto proprio durante l’incontro con la famiglia di Jake, luogo d’origine per eccellenza. In realtà risulta piuttosto chiaro che le motivazioni che si celano dietro la scelta di una tale rappresentazione estetica (sia guardando il film che leggendo il libro) non sono le stesse che possono essere lette nell’opera di Richard McGuire dal momento che, nella pellicola, la compresenza di diversi piani temporali è afferita solo alla dimensione mentale. In altre parole, tutto ciò che accade nel film e nel libro non è che una proiezione psichica che un aspirante suicida utilizza per parafrasare la sua morte e darle la dimensione del rimpianto e delle potenzialità inespresse, sopprimendo le proprie controfigure idealizzate per arrivare a sopprimere se stesso. Non ha nulla a che fare con un’analisi della struttura ontologica della realtà. Ciò non toglie che la componente estetica di un’opera artistica possa aprire ad interpretazioni che eccedono la pura linea narrativa (operazione più complessa da fare nel caso del libro) soprattutto per quanto riguarda un film come questo che indubbiamente assume su di sé una decodifica, ma non la presume. Inoltre anche il modo in cui l’autore sceglie di affrontare il tema dell’identità è piuttosto significativo: tutti i personaggi presenti all’interno del racconto (fatta eccezione per le due anonime figure che parlano nei brevissimi trafiletti in corsivo all’inizio di ogni sezione del libro) sono interni alla mente di Jake. Dunque sono a tutti gli effetti Jake.
La decisione d’interrompere la relazione fra Jake e la sua ragazza (Lucy nel film, molto più opportunamente senza nome nel libro) non è soltanto la decisione di interrompere il legame con il sognante mondo della sua mente in cui si era rifugiato pur di non soccombere all’amara realtà, privato com’è oramai di quel supporto immaginativo che lo aveva alienato: si tratta della rottura che Jake opera nella relazione che ha con se stesso, una sorta di autolicenziamento, di autonegazione. Il libro è costellato di spunti che richiamano il tema della relazione (che sia con la compagna, con se stesso o con “l’altro” in generale) a partire, ad esempio, dall’aneddoto sull’insegnante di scuola guida che Lucy (per comodità chiameremo così anche il personaggio del libro) racconta a Jake durante il tragitto in macchina: l’insegnante le avrebbe raccontato che un’altra studentessa si sarebbe definita «la baciatrice migliore del mondo». A questo Lucy avrebbe replicato: «Per baciare bisogna essere in due. Non puoi essere da solo il baciatore più bravo del mondo, puoi essere il migliore solo se anche l’altra persona lo è, il che è impossibile». Questo aneddoto, come molti altri spunti nel libro, fa riferimento alla condizione solitaria di Jake alla quale viene imputata la decisione di togliersi la vita, ma la riflessione può essere decisamente ampliata alla costitutiva relazionalità del tutto: non soltanto non si può essere il migliore baciatore del mondo da solo, ma neanche il peggiore o un baciatore di media bravura. Da soli non si può essere baciatori. L’aneddoto prosegue con l’affermazione di Lucy secondo la quale: «Non è come suonare la chitarra o altre cose che si fanno da soli e in cui puoi giudicare la tua bravura. Baciare non è un atto solitario. Bisogna essere in due per essere i migliori».
Questo ragionamento prescinde, però, da una considerazione fondamentale: non si può essere da soli neanche nel suonare una chitarra. Non si può essere un suonatore di chitarra né il migliore, né il peggiore, né di medi risultati senza instaurare un rapporto scambievole e differenziale con l’oggetto in questione. Non si è un suonatore di chitarra senza una chitarra. Non è mai possibile prescindere dalla relazione, non esiste qualcosa che si possa fare completamente da soli: ogni attività è una relazione, sia pure con se stessi, nella quale risuona ogni connessione che si sia mai avuta nell’arco della vita, ogni concatenamento relazionale che abbia mai concorso a costituire quel luogo d’incontro che è la nostra identità. «Dobbiamo trovare occasioni per fare esperienza, perché è così che impariamo, che veniamo a sapere le cose». È sempre l’istruttore di guida a dichiararlo ed è qui il significato di “relazione”. Relazione è esperienza ed ogni esperienza vissuta è una relazione instaurata con gli altri, con se stesso, con le cose; per questo è importante diversificare le relazioni, non istituirne solo con se stesso, ma con ogni ente possibile, per esperire il più possibile ciò in cui siamo immersi e di cui facciamo dunque parte. Infine è proprio l’animazione del maiale verso la conclusione del film che (pur se eretto a simbolo dell’interruzione della vita quando questa non è più sopportabile) arriva esplicitamente ad affermare:
Non è male quando la smetti di provare pena per te stesso perché sei solo un maiale o, anche peggio, un maiale infestato dai vermi. Qualcuno dev’essere un maiale infestato dai vermi, no? Tanto vale che sia tu. È una questione di fortuna: giochi con le carte che hai in mano, fai il possibile e vai avanti. Non ti preoccupi di niente. Esiste la bontà nel mondo, sai? Bisogna cercarla, ma c’è […]. Mi sto evolvendo, anche adesso, anche come fantasma, come ricordo, come polvere […]. Tutto è uguale quando guardi bene da vicino, come fisico lo dovresti sapere. Io, tu, le idee. Siamo tutti una cosa sola.
Se si guarda bene da vicino o da molto lontano (che è la stessa cosa) la Sostanza è la stessa.
Riferimenti bibliografici
R. McGuire, Here, 1989.
I. Reid, Sto pensando di finirla qui, Rizzoli, Milano 2020.
B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
Sto pensando di finirla qui. Regia: Charlie Kaufman; fotografia: Lukasz Zal; montaggio: Robert Frazen; sceneggiatura: Charlie Kaufman; interpreti: Jesse Plemons, Jessie Buckley, Toni Collette, David Thewlis, Guy Boyd; produzione: Likely Story; origine: USA; anno: 2020; durata: 134′.