Chico, un ragazzo portoghese appena laureato in filosofia, saluta i nonni e la sua famiglia e parte per Lisbona in cerca di lavoro. È questa la prima scena del primo lungometraggio di Pedro Cabeleira (Verão Danado, 2017) e, quindi, del suo cinema, che sembra perciò iniziare senza padri, senza legge, gettato nella precarietà più totale, sotto il segno di un’irrequietezza che porta verso il Fuori. Ma, in realtà, questo arrischiarsi si rivela essere subito la condizione dell’invenzione, della creazione, della generazione, della sublimazione, della libertà. Se, infatti, l’albero di limoni, la prima immagine con cui si apre il film, è il lignum vitae per eccellenza, segno del perfetto e salvifico cosmo familiare, implacabilmente fisso e definito, antidoto contro ogni veleno, esso è insieme, nelle sue ramificazioni, espressione del multiverso, confuso e incerto, dei possibili in cui è immerso. Si percepisce sin da subito che il succo acido e, allo stesso tempo, dolcemente profumato, di quei limoni è pronto a riversarsi e spandersi su ciò che sta per accadere, increspando e corrugando qualsiasi linearità e assennatezza, qualsiasi sistematicità razionale.

Un’instancabile volontà di dinamismo combatte quell’estate dannata che lascia addosso macchie di tristezza, e l’occhio di Cabeleira, in un pedinamento della variazione continua, insegue l’ebbrezza del viaggio in macchina per Lisbona, l’energia fisica della lotta giocosa nella polvere della sabbia, i movimenti di danza dei corpi che giocano a calcio, l’infuriare tumultuoso di tutte le tonalità dell’anima a causa dell’eccitazione narcotica oppure lo scatenamento degli impulsi sessuali, in cui la natura si manifesta nella sua forza suprema e parla con terrificante chiarezza del suo segreto. Per un attimo l’illusione è scacciata: ciò che di solito si ottunde con l’uso sembra ritrovare la sua forza originaria.

Chico e la sua comitiva di amici non sono altro che potenze, energie, che si muovono secondo direzioni libere, così come libero è il movimento del film, apparentemente vago e fatto a brandelli, in un labirinto di interni e primi e primissimi piani, ma vero, senza enfasi né interventi giudicanti, privo di qualsivoglia moralismo. Vanno dove vanno, tanto per andare, senza meta, senza volontà, non soggetti a nulla se non alla propria interiore necessità: la necessità dello Sballo Supremo, the High, di quel gioco fortemente eccitante che, guastando ogni regola che procede in modo meccanico, oltrepassa il punteggio massimo stabilito, consente di liberarsi da qualsiasi imballaggio avvolgente, fino a sbagliare completamente ogni previsione e perdere la posta.

Nello sballo si alterano le soglie della percezione, interne ed esterne, modificando così le velocità, le forme, i movimenti e i tempi, che diventano sovrumani o subumani. Si veda la scena della festa: effimeri incontri di sguardi, gradazioni tattili, la leggerezza degli sfioramenti, delle carezze, dei baci, in una crepuscolare suite mentale, «una camera che assomiglia ad una fantasticheria, una camera veramente spirituale, in cui l’atmosfera stagnante è leggermente tinta di rosa e di blu», «un sogno di voluttà durante un’eclissi», dove «l’anima affonda in un bagno d’indolenza, aromatizzato dal rimpianto e dal desiderio» (Baudelaire 1996, p. 390).

Ma, come ci ha insegnato Deleuze, c’è sperimentazione vitale solo quando il desiderio ci afferra, si impadronisce di noi, instaurando connessioni sempre più numerose, aprendoci alla coniugazione di altri flussi; diventa suicida, invece, quando il flusso si ripiega su se stesso. E le linee di fuga che il gruppo di Chico produce si avvolgono inesorabilmente su se stesse, infossandosi, affondando intossicate. Cabeleira filma appunto il nostro tempo intossicato, in cui domina quel godimento smarrito, di cui parlava Lacan, senza centro di gravità, disperso, alla deriva; il nostro spazio psichico drogato, reso tossico da un eccesso di presenza (senza domanda) di oggetti di godimento, dal loro uso concreto che uccide ogni costruzione metaforica (“Le cose sono come sono”, dice Maria a Chico, in una specie di anti-iniziazione al buddhismo), e da un esercizio della realtà percettivo-motoria come controinvestimento rispetto a una realtà psichica interna collassata, nel quale l’agito surclassa il pensato e la tendenza alla scarica prevale sulla necessità che si dia tempo per depositare l’esperienza.

Adepti del culto del godimento clandestino, Chico e la sua compagnia di amici sono obbligati a continuare a godere compulsivamente (e infelicemente), nell’illusione di superare magicamente l’angoscia di essere incalzati dal desiderio dell’Altro ed essere assoggettati alle sue oscillazioni enigmatiche: il rischio, cioè, di poter perdere o non possedere ciò che si desidera. Si legano così a partner inumani (alcol, droghe), che permettono loro di porsi come monadi autosufficienti, placando con il godimento narcotico la dimensione strutturalmente precaria del desiderio, fino ad annichilirla.

Veri e propri stonati seriali – vincolati a un copione, a rituali, a codici di comportamento definiti, nei quali la spinta alla trasgressione diventa una sorta di principio di normalità, di divisa necessaria per dare corpo alle loro gesta – cercano in tutti i modi di anestetizzare i rapporti sociali che stanno attorno, tenendo a distanza l’irriducibile aleatorietà del mondo reale con i suoi conflitti, le sue turbolenze, i rischi e i drammi inevitabili. Su un ponte, dopo la festa-orgia, Chico si interroga se le immagini che lo circondano siano reali. Quelle stesse persone con le quali trascorre le veglie notturne, in uno stato alterato della mente, di giorno, nel loro stato normale, gli sembrano del tutto estranee. “Come faccio a riconoscerli per strada?”, si chiede. “È questa la vita notturna!”, gli risponde Tanya. L’eccitazione angelica ricade, fino a generare una specie di indolenza, una pigrizia che va a celare la totale mancanza di aspettative per il futuro dalla quale si voleva fuggire, e svela come il riso di cui si è capaci è costitutivamente malato di melanconia, nella totale incertezza su ciò che il prossimo giorno, la prossima ora, porterà con sé, in un’espansione maniacale dell’attesa.

In questo flusso inceppato del desiderio, Cabeleira cerca di individuare e “misurare” fratture e intermittenze.Il suo filmare, rotto e allo stesso tempo fluido, è il riflesso di un tempo altrettanto discontinuo, nel quale i pensieri procedono seguendo non tanto la dittatura del significato, quanto l’associazione spontanea dei sentimenti e delle emozioni. In continui sforzi di ricalibratura, Cabeleira scruta la vita immersa nella moltitudine di pieghe e chiaroscuri e casualità e zone d’accensione (una lotta per gli accendini attraversa tutto il film), segnalando le infinite biforcazioni che si aprono ad ogni istante del percorso, lungo tutte le direzioni dello spazio, in risonanze diverse, e ognuna delle quali, a sua volta, conduce ad altri bivi. Alla ricerca di fugaci miracoli, che, nella loro istantaneità, nella loro festa così breve, si ramificano lungo ampie correnti e possono dar luogo a involontarie associazioni, memorie, intenzioni, come anche ad equivoci.

Perciò il film finisce quando è ora di finire. O, meglio, più che finire, sfinisce. Come potrebbe finire, infatti, se all’inizio non troviamo che il porsi-in-movimento dell’energia, ciò che nega ogni inizio? In assenza di un legame erotico vero e proprio, l’assorbimento nell’oggetto di godimento espone la realtà psichica al rischio di un collasso interno. E nel momento in cui la crosta del soggetto si lacera, nella comprensione dell’orrore che incombe, Chico esce dall’inquadratura ed entra nel buio. È quello il momento e il luogo giusto per vedere ciò che mai si vede. Si tratta del mondo trasfigurato dell’occhio, che vede con le palpebre abbassate. Dal paradiso artificiale delle droghe, Chico entra nell’immagine “eccessiva” dell’immaginazione autonoma, l’unico luogo, nel mondo, in cui valga la pena di abitare, dove affonda la verità più nascosta e inconfessabile. Chico più conosce se stesso, più conosce l’altro, più comprende di essere altro, quel terzo, cioè, ombra del soggetto che vede, il quale, sorgendo di sorpresa, costringe il pensiero a uscire da se stesso e l’Io a scontrarsi con la mancanza che lo costituisce e da cui vuole proteggersi.

In una tale condizione, si avverte la sensazione di essere riversati fuori da se stessi, restituiti a ciò che esiste dall’altra parte dello specchio. Questa pausa (di riflessione) del pensiero è la lucidità – esplosiva e leggera – interna alla trance, che è comune al sogno lucido, all’esperienza psichedelica, all’esperienza di prossimità alla morte e all’orgasmo. E Cabeleira si colloca proprio sul bordo, tra quella droga che è l’identità, la quale spesso ci mura, impedendoci di amare, e quella dose di oppio naturale che ognuno incessantemente secerne e rinnova, ovvero quella vera indipendenza che, in un’illuminazione profana, permette di svelare la trama sotterranea della realtà, fatta di connessioni imperscrutabili, quel tessuto fibrillare tutto risonante, in cui l’infinità delle cose visibili è la momentanea increspatura dell’Invisibile, null’altro che un punto in cui esso si concentra, tanto da rendersi, per un attimo, manifesto.

Riferimenti bibliografici
C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi, in Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996.

G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002.
G. Deleuze-F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2003.
J. Lacan, Radiofonia. Televisione, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1982.
G. Lapassade, Stati modificati e Trance, Sensibili alle foglie, Roma 1995.
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010.

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