Hollywood contiene molti mondi, si sa. Mondi immaginari, auto-narrazioni, creazioni infinite. La fabbrica dei sogni ha costantemente creato storie, su di sé e sui film realizzati nel corso dei decenni. Ma le storie hanno bisogno di inventori, di grandi creatori di immagini, di figure che entrano presto nell’olimpo del mito: Robert Aldrich è sicuramente una di queste figure. Strano però, che uno dei grandi registi del mito hollywoodiano sia un autore che nel corso di tutta la sua carriera ha costantemente decostruito la dimensione mitopoietica del cinema, ogni volta in modo diverso, ogni volta attraverso forme differenti. Aldrich è un autore-ponte di un cinema americano consapevole di sé e critico nei confronti della propria rappresentazione. Un cinema che prima ancora che politico è critico, disincantato senza essere freddo o cinico. Autore-ponte perché collega lo sguardo eterodosso di Charlie Chaplin e di Jean Renoir (di entrambi è stato assistente regista) a quello della generazione perduta dei registi esuli o blacklisted che hanno lavorato con lui, come Abraham Polonsky, Robert Rossen, Joseph Losey.

Da questo punto di vista, il percorso di Aldrich è graduale: il suo sguardo ha costantemente esplorato nel corso del tempo le forme dei generi cinematografici hollywoodiani per ripensarli da una prospettiva critica. Non per parodiarli o smontarli, ma per farli cedere o implodere dall’interno, per mostrarne le crepe, e dunque la potenza dirompente e negativa, la violenza simbolica e reale che ognuno di essi ha sempre messo in gioco. In una intervista con Harry Ringel del 1974, Aldrich parla del suo rapporto con le regole dei generi cinematografici, affermando che il suo sforzo, film dopo film, è sempre stato quello di non ripetere la formula del film precedente, ma di andare avanti, di sviluppare ciò che è rimasto fuori campo, inespresso, potenziale. E questo diventa evidente se si leggono uno dopo l’altro non solo tutti i film del regista americano (i suoi grandi titoli, Un bacio e una pistola, Il grande coltello, Quella sporca dozzina, Piano…Piano, dolce Carlotta, Quella sporca ultima meta, I ragazzi del coro, solo per citarne alcuni), ma soprattutto se si riattraversa il suo percorso registico lungo il western, dai due film “polari” del 1954 (L’ultimo Apache e Vera Cruz), passando per lo psicoanalitico L’occhio caldo del cielo (1961), il lavoro sui cliché del western I 4 del Texas (1963) e arrivando a due film diversissimi e che nonostante tutto dialogano tra loro come il punto d’inizio e finale di un disincanto nei confronti del mito fondante che il western incarna: Nessuna pietà per Ulzana (1972) e Scusi, dov’è il West? (1979).

Se dunque il western è il racconto mitologico della fondazione degli Stati Uniti, e se il cinema è stata la sua forma estetica principale, il lavoro di Aldrich sul western, film dopo film, si può configurare come un percorso di ripensamento critico della forma del “genere originario”, come direbbe Bazin. Già nella coppia che dà il via alla sua rilettura del western è in gioco la questione chiave del mondo western di Aldrich, vale a dire la disarmonia fondante del mondo. In L’ultimo Apache, Massai (Burt Lancaster), il protagonista, emerge dalle rocce per combattere contro la dominazione dei bianchi. L’uomo non può cedere alla logica di dominazione dei bianchi e per tutto il film cerca di fuggire e di opporsi a loro, cadendo e rialzandosi, incontrando figure diverse, riempiendosi di polvere e sudore. Aldrich non rovescia la figura dell’indiano, trasformandolo da minaccia all’avanzata della civiltà a figura dell’umano, o meglio del buon selvaggio, però integrato e dialogante con il mondo dei bianchi. Massai sa bene che non c’è conciliazione dialettica, non c’è armonia possibile, solo lo scontro tra due volontà opposte, i dominatori/colonizzatori e la popolazione autoctona. Massai deve morire, ed è solo per la volontà della produzione (la Hecht-Lancaster, il cui socio principale è proprio l’attore) che il finale diventa invece un happy end, con Massai che accetta di diventare agricoltore. Il film è un successo ed è grazie a questo che Aldrich può dedicarsi al secondo western, lo stesso anno, sempre per la Hecht-Lancaster, Vera Cruz. L’impossibile dialettica conciliatoria che alla fine ingloba Massai in L’ultimo Apache qui implode su se stessa. I due protagonisti del film, Gary Cooper e Burt Lancaster, non sono le figure di una contrapposizione etica tra il bene e il male, il portatore di valori sani e il corruttore, né l’ennesima variazione sul tema del Buddy Movie. Tra Joe e Benjamin c’è di fatto solo una variazione di intensità, un diverso grado di colpevolezza e di innocenza (che caratterizza entrambi). Il fatto che ci sia un vincitore e un vinto non ha tanto a che fare con una superiorità morale, ma con un leggero scarto tra i due. Apache e Vera Cruz costituiscono così una sorta di polarità nel western di Aldrich, come si è detto: una dinamica che sottilmente lavora il mito del west come racconto di fondazione, rovesciandolo al suo interno. L’alterità irriducibile di Massai non può essere né assorbita né annullata, l’Uno non farà mai parte dei Molti (Altri). La lotta tra le figure del mito (Benjamin e Joe) non contrappone il Bene e il Male, ma solo un vincitore e un vinto. Il mito si trasforma in Storia, perché non è più possibile credere ad esso.

Ma se il mito è irripetibile, se non è più possibile continuare a crederci, allora perché continuare a fare film western? Aldrich in realtà prende al volo le occasioni che ha di dirigere dei western perché a questo punto il genere diventa una sorta di carta bianca, di narrazione mobile, plasmabile, capace di accogliere altre forme e altre narrazioni; di essere cioè quel “surwestern” di cui parlava Bazin, il genere che non può più essere classico e deve costantemente ibridarsi con altro. Lo è sicuramente uno dei western psicoanalitici degli anni sessanta, L’occhio caldo del cielo, che “rilegge” la dinamica del Due di Vera Cruz sotto l’egida della pulsione e del desiderio, che uniscono e separano i due protagonisti, Rock Hudson e Kirk Douglas. Ma la forma definitiva del western che non può più essere tale diventa, due anni dopo, I 4 del Texas. L’assalto alla diligenza con cui inizia il film, con Frank Sinatra e Dean Martin che sparano verso gli inseguitori sembra proiettarci direttamente all’interno della scena clou di Ombre Rosse di John Ford (appunto l’ultimo film classico, diceva Bazin). Ma ancora una volta, il classico e il mito sono disgregati dall’interno: la scena è una sorta di farsa che rovescia l’epica del film fordiano, trascinandola in un film dove i personaggi non smettono di ridere, malgrado tutto. L’ironia è la tonalità dominante del film ed è la tonalità del distacco, del rovesciamento, come ricordava Kierkegaard: l’ironia mostra il sorriso là dove dovrebbe esserci il dramma.

Ma se il film del 1963 riscrive il western sotto la forma dell’ironia, e quello del 1961 si concentra nel conflitto tra le figure del maschile, gli anni settanta diventano l’occasione per la costruzione di una nuova polarità, forse più radicale e disperata. Il 1972 è l’anno di uscita di quello che è probabilmente il capolavoro western del regista americano, Nessuna pietà per Ulzana. Ancora una volta, la figura dell’indiano è la figura dell’irriducibilità, della rottura dell’illusione di conciliazione tra due mondi. Ulzana e il suo gruppo di ribelli non sono eroi romantici in fuga: essi mettono a ferro a fuoco le fattorie dei bianchi che incontrano nel cammino, torturando e uccidendo. Ma al tempo stesso si ribellano ad una conquista e ad una oppressione, come aveva provato a fare Massai in L’ultimo Apache. Questa volta chi lo insegue e ha il compito di ucciderlo (proprio Burt Lancaster, che aveva interpretato Massai diciotto anni prima), paradossalmente ne comprende le ragioni, e porta avanti la sua missione per pura inerzia, solo per far cessare quella catena di morti di fronte a sé. Non c’è più mito, e non ci sono più valori a cui credere ciecamente, perché quei valori nascondono la violenza e l’oppressione che costituiscono la realtà della fondazione del paese. L’ironia si trasforma in scetticismo, in disperazione. Il mondo del film è privo di eroi, ma dominano (come sempre nel cinema western di Aldrich) la polvere, le cicatrici, la luce accecante del sole, il deserto. L’ombra del Vietnam incombe sul film, lo si è spesso detto. Ma si farebbe un torto a Nessuna pietà per Ulzana se lo si leggesse solo come western politico, là dove invece si pone un discorso critico radicale sul mito e sulla credenza.

Ulzana è un film radicale dunque: quale polarità è mai possibile dopo quelle immagini? Eppure l’ultimo western del regista, Scusi, dov’è il West? – probabilmente il maggior insuccesso di Aldrich – diventa il segno dell’impossibilità di proseguire il percorso. Nel viaggio dell’aspirante rabbino Gene Wilder dalla Polonia della seconda metà dell’Ottocento alla California, ogni evento è totalmente irreale, fatto di apparizioni improbabili, personaggi fiabeschi, giochi comici che sembrano consegnarci un west fittizio, un mito che è diventato ormai favoletta, pura illusione. Ma proprio perché siamo passati attraverso il nichilismo radicale degli anni settanta, il film non può tornare indietro, né all’ironia degli anni settanta, né ai primi cedimenti del mito degli anni cinquanta. Un film comico, in cui però non si ride. Quando nel film Gene Wilder arriva nello scompartimento del treno, ignaro che pochi minuti prima Harrison Ford ha rapinato i passeggeri, crede che questi stiano giocando, e inizia a ridere. Ma nessuno ride e il rabbino grida, con un sorriso strozzato: “Dovete ridere! Perché non ridete?”. Ecco, non è più possibile ridere, perché l’ironia è solo una tappa dello svuotamento dialettico del mito e non può essere più ripresa. Rimane solo l’illusione, la maschera postmoderna, che Aldrich (che postmoderno non è) non può se non consegnarci come scatola vuota.

Tags     mito, Robert Aldrich, western
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