Agli amici walshiani Michel Mourlet e Tom Conley
Western, intuitivamente, implica che i film non siano opere in sé conchiuse ma fasi di una evoluzione o transizione, una processualità storica, tasselli di una tradizione, anelli di una logica progressiva o regressiva, il cui interesse risiederebbe soltanto nei rapporti che intrattengono con il passato o, semmai, il futuro, insomma sarebbero documenti più che creazioni (westerns). Sul campo, e non per partito preso, nel movimento della écriture, di fatto, si è stretto un equilibrio dinamico fra documenti e creazioni. I documenti sono stati e sono creazioni che diventano modelli, da imitare, perfezionare, sfregiare, per altre creazioni che, a loro volta, diventeranno esempi. Anche se, si badi bene, non si tratta di catturare e pacificare questa storia attraverso una logica evolutiva o uno schema che inanelli uno dietro l’altro DeMille (western classico), Mann (western moderno) e Peckinpah (neo-western), come fossero il calmo Ingres (Classicismo), il mosso e passionale Delacroix (Romanticismo), il brutale Courbet (Realismo). Anzitutto perché, come ha mostrato fra gli altri Ernst H. Gombrich, questa logica evolutiva è falsa anche nella storia dell’arte, per non parlare della storia in generale, multilineare, drammatica, tormentata.
Raoul Walsh, classico ma eterodosso, non ha atteso il colorismo acceso degli anni cinquanta o il realismo brutale dei sessanta per introdurre toni elegiaci o crudi nei suoi film western, anzi, con Delmer Daves o Budd Boetticher, negli anni cinquanta, innerva il western di un supplemento di senso. Gli accaparratori prima di apparire nel tardo I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino, emergono già in Sul fiume d’argento (1948). Se è vero che le storie sui pellerossa degli anni cinquanta sono fortemente innovative (con la regia di firme eccellenti del genere come Delmer Daves e Anthony Mann), è altresì vero che il prodigioso e anomalo La storia del generale Custer (1941) è dell’annus mirabilis di Walsh, il 1941. E che dire del confronto dialettico tra natura e cultura (Tamburi lontani, 1951) o dell’antagonismo sociale fra grandi proprietari terrieri dediti all’allevamento di bestiame e piccoli agricoltori (Gli implacabili, 1955), sintomo delle contraddizioni sociali di quel progetto di emancipazione attraverso il quale – come ha scritto Antonio Negri – l’umanità intera ha sognato per l’ultima volta? E prima ancora di Robert Altman, Walsh in La bionda e lo sceriffo (1958) fa la parodia ironica del genere e dall’interno. Classico in Gli implacabili e barocco in Banda degli angeli (1957). Sabbie rosse (1951) è un racconto chiaro ed evidente solo in apparenza. La tessitura narrativa del film si annoda per poi snodarsi attraverso livelli e dislivelli, salti e sbalzi. Un film profondamente ambiguo per ciò che accade nel campo delle forze visibili in gioco nel presente narrativo, come per ciò che accade nel fuori campo invisibile della memoria. Duello che disorienta e getta nello smarrimento (di sé), giocato sulla linea di divisione tra sé e sé, cui allude il titolo originale del film. Un western a spirale, un western moderno.
Western: arte dell’essere, arte del divenire. La forma salda, la ferma corposità di un Raoul Walsh, diventa movimento. Walsh, negli anni cinquanta, con Along the Great Divide, e già prima, nel 1947, con lo psicanalitico Notte senza fine, spinge il western classico oltre i confini delle forme lineari, aprendo in esse crepe e fenditure, lungo la great divide che lacera Kirk Douglas, un corpo-rigido-sul-punto-di-esplodere. Ma Walsh sa anche trarre tutta la bellezza pittorica dalle rovine del classicismo, nel sublime Un re per quattro regine (1958) interpretato dall’ancora guizzante Clark Gable, in cui le forme architettoniche della stratigrafica natura circostante si fondono con le rovine della vecchia casa (Hollywood?). Il supposto linearismo classico di Walsh, in realtà, è un modo di figurazione deviata rispetto alla norma: lo scarto rispetto alla norma è il suo contrassegno. Del resto anche André Bazin riconobbe a Walsh il ruolo di traghettatore dal classicismo verso la modernità del “sur-western”, western più adulto. Nella Telemachia del western classico passato e presente coincidono, lo sceriffo James Stewart in Partita d’azzardo (1939) di George Marshall, ripete le gesta esemplari del padre. Negli anni cinquanta, il decennio del conformismo affluente, padre e figlio si separano: Diario di un condannato (1953) di Walsh.
Dunque, il “Walsh Touch” dis-giunge classico e moderno, perfeziona la regola a tal punto da rovesciarla barbaricamente in un barocchismo. Nei suoi cinquant’anni di cinema affronta la crisi dell’immagine-azione e del sogno americano. Gli implacabili è l’ultimo magnifico sussulto di classicismo, un film di ampio respiro e di gesti, ammirato da Roger Tailleur e Wim Wenders. Un film di forze e di aria, in cui l’implacabilità è dis-velata nella ferita: in-vulnerabilità. Il classicismo si eccede da sé, non attende beccamorti o esecutori testamentari. Questo western, nel suo itinerario psicogeografico, è un repertorio topologico di molti temi del genere: il trasporto della mandria di bestiame, due uomini che si disputano una donna e così via. Messa in scena del racconto delle imprese di un eroe ancora classico, ritratto nella lotta contro gli Indiani, i briganti, gli affaristi-predoni e soprattutto, connotativamente, contro l’Incommensurabile. Clark Gable-Ben Allison non può assolutamente sottomettersi, né accettare la sconfitta senza combattere. E anche nel finale, quando Walsh costruisce nel suo sguardo un quadro armonioso, Ben non si consegna alla resa estetica, ma si abbandona al Tutto, all’assoluto che continua nella natura, al riposo nelle braccia del mondo e di Jane Russell, un riposo mai statico, il riposo di chi attende la lotta o di chi l’ha appena conclusa. Questo racconto è classico ma è condotto in modo originale e perfino moderno. I rapporti, infatti, si delineano in una complessità moderna, nel gioco dialettico di azione e stasi.
Sicché, nel discorso-decorso walshiano, in particolare all’interno del genere western, il suo classicismo è, per dirla con Serge Daney, cosciente di sé, un classicismo storicizzato, mai assoluto. E, infatti, il classicismo si volge in barocchismo in Un re per quattro regine. Qui il racconto è nel gioco sapiente, dalla messa in scena di movimenti e gesti, avvicinamenti e allontanamenti, da una tensione di corpi che si studiano, si tengono a distanza e si attraggono: una costellazione di forze che agiscono e reagiscono le une sulle altre, a dispetto di un cast relativamente ridotto. Dilatazione e contrazione di corpi, un movimento indistruttibile, una libertà totale che propaga un materialismo sensuale, come nell’incipit e nel finale del film, messi in rima da un movimento di fuga. Danza di corpi e colori, topologia emotiva e pulsionale, scenario straripante di sentimenti e desideri. La scenografia “teatrale” della grande casa fatiscente è il segno sintetico di una crisi, resti della civiltà e delle sue forme classiche? Di Hollywood?
Il piano di Walsh anche in questo western che non è esattamente classico, non è che un punto incandescente, una fiamma, una messa a fuoco che nasconde e racchiude il talismano di quel colore, di quella forma rocciosa, come se lo sguardo del regista interrogasse il visibile dall’interno. Il suo piano è uno snodo che raccorda intorno a sé un tessuto disseminato, la trama del visibile. È la natura nella sua inafferrabilità, nella sua fuga, nella sua resistenza agli intrighi e alle baruffe degli uomini che hanno rimosso ogni suo vincolo di territorio. Walsh sa restituire questa tessitura perché sa vedere, nonostante, a causa di una menomazione, abbia solo un occhio. Coglie e ri-prende perché è a sua volta intrappolato dentro questo movimento di cose, forme e colori; partecipa e appartiene a ciò che rappresenta, a differenza di un pensiero allegro e disinvolto che si suppone disincarnato, come il coenismo con il loro falso e fermo Il Grinta (2010). Come dicono Merleau-Ponty e Raymond Bellour: il mondo non riposa in fondo a se stesso, ma attende una messa a fuoco, lo sguardo dell’uomo che, a sua volta, percepisce perché c’è qualcosa da percepire. È un cinema del presente, per dirla con le parole di Daney. Esiste per far tornare ciò che è già stato. È il lavoro filmico a minacciare e sconvolgere la linearità testuale, l’omogeneità fra enunciazione ed enunciato, il rimontare di un fuori inespresso o, meglio non comunicato, che si esprime nella immagine narrativa. Una pulsazione interindividuale. Immagine di vita che è vita dell’immagine. Un re per quattro regine non è semplicemente ascrivibile alla parodia di un genere, quello western, ma una scrittura esemplare, classica e barocca, un’eco visibile e sensibile di corpi e rughe, sguardi e gesti, pulsioni che accendono gli esseri umani e li spingono a cimentarsi nei giochi del mondo: l’amore, il sesso, il denaro… Il classicismo si traveste e indossa una maschera. Il western walshiano è un ri-aggiustamento di codici preesistenti, un uso rinnovato di vecchie funzioni, una bilancia fra ripetizioni e variazioni: “Walsh Touch”!
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Evoluzione del western, in Id., Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
R. Bellour, a cura di, Le cinéma americain. Analyse de films, I, Flammarion, Paris 1980.
Id., L’analisi del film, Kaplan, Torino 2005.
S. Daney, Ciné journal, Biblioteca di Bianco & Nero, Roma 1999.
R. Tailleur, Roger Tailleur e “Positif”. Le opere e i giorni del grande cinema 1953-1970, a cura di G. Volpi, Falsopiano, Alessandria 2007.
W. Wenders, Gli implacabili, in Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Ubulibri, Milano 1989.