Ha un’apertura di grande pregnanza, drammatica e figurativa, Il vizio della speranza: una radicale, vertiginosa inquadratura plongée, il quadro interamente abitato dall’acqua, il corpo immobile di una ragazzina vestita di bianco, rifiuti galleggianti. Poi una barca, la ragazzina è in una rete da pesca, issata a bordo sanguinante, è viva. La barca si avvia, presto accerchiata da imbarcazioni in cui altri uomini imprecano contro l’uomo che la conduce. Una musica vibrante racchiude la visione in un’atmosfera rarefatta e tesa. Scritto da Umberto Contarello e dal regista, quarto lungometraggio di Edoardo De Angelis, sorretto da un impianto visivo saldo e corposo, Il vizio della speranza conferma le qualità del suo autore – che dimostra, dopo il successo di Indivisibili (2016), di possedere quello che si chiama uno sguardo –, ma è nel complesso un film molto incerto e, da un certo momento in avanti, bruciato e in definitiva disfatto dallo stesso ambiziosissimo disegno che lo muove.

Per tutta la prima parte, quasi tutta la prima ora, il film esibisce una scrittura densa e potente, quasi sempre controllata ma sempre tesa, capace di mantenere in equilibrio matericità della rappresentazione e accuratezza tecnico-formale. Una umanità prostrata, annichilita, inabissata nel degrado, ne costituisce l’oggetto: rifiuti ovunque, fango e baracche, prostituzione, violenza, commercio di neonati, una sfruttatrice tossicodipendente ricoperta di gioielli, una madre attonita, poveri corpi di schiave, sono l’universo in cui si muove Maria, la cui esistenza, e il cui corpo, sono stati subito annientati e che ora sopravvive trasportando sul fiume prostitute incinte.

In una Castel Volturno costantemente battuta dalla pioggia (di cui il regista ringrazia “ogni goccia”, nei titoli di coda del film), De Angelis rintraccia e modella questo mondo perduto per il tramite di una calibrata esposizione delle forme, che tuttavia evita virtuosismi, ogni tipo di compiacimento e ogni forma di concessione allo spettacolo, e anzi più volte si definisce a partire dal proprio rigore: vi si danno un’esibita predilezione per long take e piano-sequenza, una costruzione sempre minuziosa dell’inquadratura, luminismi elaborati, cromatismi accesi, ripetizioni e rime, visive e sonore, ritmi ora intensi, spesso alimentati dalla densità percussiva delle sonorità di Avitabile (che firma le musiche originali, notevolissime), ora più distesi.

Incrinature e cedimenti, pure, si aprono a tratti nelle maglie di questo rigore, talora dovuti a un certo patetismo (l’incontro di Maria con l’amica di un tempo, ammalata di cancro, al suo matrimonio), a un lirismo eccessivo (la giostra “lavatrice” di Carlo, che ricomincia a girare dopo anni di inattività, “regalo di Natale” dell’uomo a Maria e alla piccola Virgin: vi si coglie, sul volto di Maria che gira vorticosamente insieme alla macchina, un omaggio alla felicità improvvisa, indotta, di Antoine Doinel nel rotor de I quattrocento colpi, 1959), a una presenza talora troppo invasiva della pur notevole, l’ho appena detto, colonna musicale.

Ma è col progressivo disvelamento di quello che a tutti gli effetti pare costituirsi come un cardine immaginativo e configurativo del film, vale a dire con l’evidente convocazione nella rappresentazione dell’ombra della Madonna e della Natività, che il film stesso è come disfatto dal peso, dall’altezza, dalla potenza per così dire inaccostabile (oppure, certo, accostabile senza esserne travolti e schiacciati, ma a patto di fare, che so, Je vous salue, Marie, 1985), di quell’ombra, minato nelle sue fondamenta discorsive e narrative, incenerito dalla sua stessa ambiziosissima processualità elaborativa. Non si tratta di un richiamo, di una evocazione, ma dell’iscrizione accentrante di un’idea che fa tremare e che di fatto, se è possibile dire così, resta d’un tratto da sola nel film, trasformandolo nello spazio dell’esposizione di un concetto, senza più intensità, senza più forza.

L’ordine della verosimiglianza, così accuratamente costruito nella prima parte, si sfalda, le incrinature si fanno crepe, la tensione si allenta, i dialoghi smarginano (Maria vuole chiamare suo figlio Uomo), le immagini tremano e fanno temere il peggio (il parto di Maria in un povero riparo, e l’uomo barbuto, più anziano di lei, che l’affianca…). La stessa matericità corposa, affannosa, dolente, a tratti evidentemente dardenniana del film (la macchina da presa costantemente sulla protagonista, fisicamente accanto a lei, ad accompagnare, con rigore e partecipazione, i suoi gesti, la sua fatica, i suoi respiri, come nella bellissima sequenza in cui Maria cerca di portare in braccio il suo cane ferito a morte da un serpente, ma crolla di continuo insieme a lui – come nel grande finale di Rosetta, di cui questa, forse, è una compiuta citazione) ne risente notevolmente.

Già ovunque e fin dall’inizio disseminata, per via degli innumerevoli segni di una religiosità popolare che De Angelis conosce bene e di cui sa parlare, ma anche, negli sparsi simboli, nelle figure, nelle apparenze, l’ombra di Maria che precipita sulla vicenda tragica dell’omonima protagonista, improvvisamente toccata da una maternità inimmaginabile, è ciò che, lungi dall’ispessirla, ne cortocircuita la rappresentazione. Se il film è dunque travolto dalla potenza dell’idea che l’attraversa, se essa finisce per divorarne assunti, equilibri ed impianto, resta, certo, lo stile, ma come restano i rami di un albero incendiato.

Più dello stile, allora, ciò che invece per lo spettatore, che via via perde contatto col film, resta vivo e presente e non smette di vibrare per intensità e compiutezza, è la prova degli interpreti principali: notevole quella di Pina Turco, moglie di De Angelis, che egli filma con trasporto e misura, tutta fisica, affannata e dolente, nel fango, sul fiume, sotto la pioggia; di Massimiliano Rossi, impietrito, essiccato dalla ruvidezza cupa del suo personaggio, anche quando è chiamato a sorreggere, nella scena della nascita, una sorta di preghiera/invocazione impercorribile; di Cristina Donadio, capace di modulare su toni minori, dimessi e perfino ovattati, i lineamenti di un personaggio stordito dalla sua stessa incapacità di agire.

Del tutto straordinaria, infine, la prova di Marina Confalone, concentratissima, sempre perfettamente calibrata, rappresa in sguardi e in gesti insieme imponenti e annebbiati, malavitosa austera e spossata, rilucente di gemme e di collane. Di Avitabile, che torna a firmare le musiche di un lavoro di De Angelis, ho detto più di una volta. Almeno una menzione merita allora la multiplanare, variata fotografia di Ferran Paredes Rubio, già datore luci di tutti gli altri lungometraggi del regista, Mozzarella Stories (2011), Perez (2014) e IndivisibiliIl vizio della speranza è abitato da uno sguardo riconoscibile almeno quanto onesto, folgorato, pur senza scampo, da un eccesso di coraggio, non di presunzione.

Share