Le storie del video sono tante. E Valentina Valentini le conosce bene tutte, da quando la video arte ha iniziato a muovere i suoi primi passi all’interno del contesto della Performance Art nei primi anni settanta del Novecento fino agli attuali esperimenti post-digitali delle Live Media Arts. Nel suo lavoro di critica e teorica svolto in questi trenta e più anni ha ipotizzato metodi di ricerca, disegnato traiettorie, costruito percorsi storici che hanno cercato di tenere conto il più possibile della ricchezza e della varietà dei motivi e delle figure di quella che generalmente viene definita video arte. Da ormai quasi più di cinquanta anni le forme della video arte sono sempre state e non hanno mai smesso di essere molteplici: è questo un territorio che spesso rifiuta di essere mappato, un rizoma che non conosce paesaggio, una poliritmia di racconti che si ostina a non diventare una storia unica. Dalle performance concepite per la telecamera, che facevano incontrare body art e primi dispositivi elettronici, ai video monocanale degli anni ’80; dalle installazioni video multimediali e multimodali che dagli anni ’90 continuano oggi ad imporre la loro forma espressiva agli ambienti immersivi ed esperenziali; dai video multicanale alla videoscultura e alle interazioni video-macchina, sono moltissime le estetiche che gli artisti e le artiste sperimentando con il mezzo video hanno messo in campo negli anni cercando sempre di disegnare percorsi inquieti che  riuscissero a costruire territori indipendenti e alternativi rispetto alla storia (e alle storie) del Cinema.

È sicuramente possibile tracciare delle linee di indagine che hanno attraversato anni ed estetiche diverse: la centralità del rapporto tra fruitore/visitatore e opera d’arte, ad esempio; la pratica del remixage, ovvero il riutilizzo di materiali di archivio; la ri-temporalizzazione delle modalità classiche di fruizione dell’oggetto video: tempo reale, slow motion, dilatazione, pluralità di tempi. Ma pretendere di raccontare una storia univoca dell’arte video può essere ormai considerato universalmente esercizio sterile e non necessario, talmente tante sono le linee, le estetiche e le storie messe in campo e talmente data per assodata l’essenza eterogenea della sua natura. Così come, forse, sarebbe altrettanto sterile provare a costruire un percorso critico e curatoriale che metta al centro la questione puramente storiografica.

La poliritmia del gesto video è sincrona, e questa è una delle sensazioni più forti che si provano attraversando i padiglioni del Palazzo delle Esposizioni a Roma, uno dei due luoghi, assieme alla Galleria di Arte Moderna, che in questi giorni e fino al 4 settembre 2022 ospitano la mostra Il video rende felici curata da Valentina Valentini. Il percorso espositivo allestito al piano terra del Palazzo delle Esposizioni si apre con l’opera cronologicamente più remota tra tutte quelle presentate, il Film Ambiente dell’artista veronese Marinella Pirelli, risalente al 1969: un’installazione in forma di ambiente percorribile dove un video in 16 mm viene proiettato sopra ad una labirintica struttura in metallo e pvc che moltiplica, riflettendole, le immagini che riceve. Nella stanza immediatamente adiacente ci troviamo di fronte all’ archeologia futuribile della Video Machine Mobile di Donato Piccolo, lavoro del 2002, al quale segue, senza soluzione di continuità, l’installazione di Michele Sambin Il tempo consuma, che ricompone in un dispositivo digitale tre opere del 1979.

Malgrado nella brochure della mostra si parli di opere presentate entro uno specifico arco cronologico, la sensazione è esattamente opposta: sembra piuttosto di trovarsi all’interno di una polifonia di visioni caratterizzata da una temporalità circolare. Muoversi tra le sale espositive allestite al piano terra del Palazzo significa spaziare all’interno di una rete spazio-temporale di segni, suoni, materiali, immagini che non sembrano possedere direzioni, frecce, destini o traiettorie. Ogni opera va incontro al visitatore come oggetto a sé, e propone il suo segno come esistesse al di fuori del tempo storico. Sicuramente non sembra essere la prospettiva cronologica quella che interessa Valentini: piuttosto la scelta delle opere abbraccia gioiosamente la diversità degli stili, dei generi e delle provenienze, passando per le opere già citate fino al coinvolgimento attivo di Studio Azzurro, del quale viene presentato uno dei lavori più famosi, Coro, opera chiave della videoarte italiana; mentre gli esercizi ipnagogico-contemplativi di Danilo Correale si alternano all’irruenza di Daniele Puppi e all’entusiasmante dadaismo punk dei Giovanotti Mondano Meccanici.

I lavori presentati, undici in tutto, non sono molti; ma rispetto alla tendenza all’iper-accumulo e alla sovrapposizione di segni caratteristica di molti percorsi curatoriali attuali, si accoglie con un sospiro di sollievo il rispetto con il quale sono stati installati: rispetto per lo spazio dell’opera (è bello poter fruire anche dei materiali di lavoro degli artisti: gli schizzi preparatori, le pagine progettuali) come per lo spazio della fruizione. Ad ogni opera è stata data la possibilità di prendersi lo spazio e il tempo che si merita; perfino l’odioso inquinamento acustico, caratteristica costante di certi allestimenti, sembra essere stato scongiurato.

Negli spazi della Galleria d’Arte Moderna invece, Valentini sembra rinnegare la direzione intrapresa a Palazzo: le sale espositive qui sembrano dedicate piuttosto alla costruzione di un percorso maggiormente orientato verso una prospettiva di approfondimento e retrospettiva. Delle nove opere installate, ben più della metà provengono dagli anni ’70, come se la curatrice suggerisse il disegno di una genealogia, di un racconto delle origini che parla i linguaggi del video monocanale (Franco Vaccari), della dimensione oggettuale del video (Fabrizio Plessi, Umberto Bignardi), del confronto ironico con la televisione (Fabio Mauri). Perfino ai rinomati lavori di Bill Viola degli anni ’90 viene preferita una piccola ma esemplare installazione del 1975, Il vapore, una delle riflessioni più riuscite dell’artista americano sulle possibilità offerte dal mezzo video di superare la linearità temporale e abbracciare (eccoci di nuovo qui) la coesistenza di passato e presente. Oltre alle installazioni, nelle sale della GAM vengono presentate su monitor e a ciclo continuo approfondite retrospettive dedicate ad alcune importanti storie del video: quella dei festival video come Taormina Arte e lo Schermo dell’Arte; quella dei centri di produzione nazionali, tra i quali figurano il Centro Video Arte Palazzo dei Diamanti a Ferrara e Art/Tapes 22; quella del rapporto con le discipline della danza e del teatro; quella delle sperimentazioni televisive.

Dopo aver visitato la mostra, viene dunque da chiedersi cosa tenga insieme le due linee di indagine rappresentate dai due diversi allestimenti. Dove si nasconde il punto di vista della curatrice all’interno di questo gioco di negazioni e affermazioni, dove a tratti tutto sembra tenersi insieme magicamente tra percorso curatoriale e retrospettiva, tra forma catalogo e forma flusso, e a tratti invece sembra mancare il corpo di un discorso? Il cuore del progetto curatoriale di Valentini non è affatto nascosto, anzi, è immediatamente dichiarato, a caratteri cubitali, all’ingresso delle sedi espositive. «Il video rende felici», geniale citazione da Nam June Paik, uno dei pionieri della video arte che in un dialogo con Bill Viola affermava: «Il video rende felici perché è come il sesso, lo possono fare tutti».

Così come nel rapporto sessuale anche nella curatela di Valentini sono due gli elementi intorno ai quali si declina il percorso di piacere e scoperta che accompagna il visitatore: il corpo e l’elemento ludico dell’interazione. In (quasi) tutte le opere allestite il corpo del visitatore viene chiamato in causa: al corpo viene chiesto di attivare l’installazione di Studio Azzurro (risvegliando così altri corpi dormienti, che aspettano l’incontro con il reale per prendere vita); al corpo viene chiesto di immergersi nel gioco di rifrazioni della scatola magica della Perilli; è il corpo che deve lasciarsi andare all’ascolto e alla visione sdraiandosi sui lettini di Danilo Correale o sui tappetini di schiuma di Elisa Giardina Papa; è il corpo che reagisce ai colpi continui del gigantesco corpo virtuale di Daniele Puppi che sbatte violento contro la parete; è il corpo che permette il cortocircuito temporale dell’opera Il Vapore di Bill Viola.

È come se Valentini ci ricordasse che all’arte video il video da solo non basta, non è mai bastato (è forse un caso che il percorso alla GAM si apra con un’opera di Buren che sottolinea proprio l’inaffidabilità dell’immagine video?). La video arte, per poter essere rivoluzionaria, ha bisogno del corpo, ha bisogno del tempo e dello spazio, ha bisogno della libertà e dell’ironia del gioco.

Il video rende felici. Videoarte in Italia a cura di Valentina Valentini, 12 aprile 2022 – 4 settembre 2022, Palazzo delle Esposizioni e Galleria d’Arte Moderna di Roma.

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