Che cos’è un animale? Il problema dell’animalità sta tutto in questa domanda. In realtà è una domanda tendenziosa, perché pregiudica, senza peraltro esplicitarlo, il tipo di risposta che si attende; in effetti già prestabilisce quali possono essere le risposte ammesse e quelle che, invece, non saranno accettate. Se si chiede che cos’è un animale si è già stabilito (quella che si chiama metafisica è questa scelta che già da sempre è stata fatta) che l’animale sia un qualcosa, sia un oggetto vivente. Mentre invece quello che gli animali mettono in mostra, quando riusciamo a vederli – o meglio, quando gli permettiamo di presentarsi per quel che sono, e non per quello che vogliamo o crediamo che siano – non è che sono degli oggetti (benché viventi), sono piuttosto dei movimenti, sono propriamente delle apparizioni.
L’animale, cioè, non è qualcosa, come può essere un oggetto con le sue caratteristiche, bensì un evento. Non c’è l’animale, c’è piuttosto l’animaleggiare, c’è il cervo-nel-bosco-di-notte, in cui il cervo è inseparabile dal bosco di notte, e il bosco notturno dal cervo che lo attraversa furtivo. L’animale sfugge alle nostre parole, parole che, invece, non aspirano ad altro che a fissare il mondo come se fosse composto da una serie infinita di cose, ognuna al suo posto, isolata dalle altre, in un assoluto isolamento. Al contrario, l’animale è invece puro movimento e pura relazione, ché l’animale si muove anche quando è fermo, quando dorme con un occhio solo, sempre pronto ad alzarsi di scatto e correre via.
Questo carattere elusivo e inafferrabile dell’animalità si mostra in modo esemplare nelle fotografie di George Shiras (1859–1942), che inventò un dispositivo automatico che permetteva all’animale – che inavvertitamente faceva scattare il meccanismo dello scatto – di fotografarsi da solo. Da notare che il libro in cui Shiras pubblica nel 1935 le sue fotografie, Hunting Wild Life with Camera and Flashlight, mette in evidenza la natura ambigua dell’immagine fotografica, in particolare di quella che ritrae gli animali: come dice il titolo stesso del libro di Shiras, si tratta infatti di continuare a “cacciare” gli animali, benché questa volta attraverso l’obiettivo e non il mirino di un fucile.
Tuttavia, in entrambi i casi, il punto in questione è immobilizzare il movimento animale per fissarlo in un cadavere in un caso o in un’immagine nell’altro. È intorno a questa ambiguità che si muove il libro di Jean-Christophe Bailly, Il versante animale (Contrasto 2021), che appunto prende spunto da queste inquietanti fotografie. Il libro si apre con il racconto di un episodio accaduto allo stesso autore, in una strada di campagna, di notte, mentre è alla guida della sua automobile. Improvvisamente appare un capriolo dal fondo della foresta che per un breve tratto di strada si affianca all’auto: «Ed ecco che da questo mondo qualcuno emerge – un fantasma, un animale – perché solo un animale potrebbe emergere in questo modo. Un capriolo è sbucato dal bordo della strada e, in preda al panico, è costretto dal muro di siepi a risalirla correndo» (Bailly 2021, p. 7).
L’animale appare, come un fulmine o un riflesso, improvviso e insensato. È proprio questa meraviglia che ci sconcerta, e ci umilia, noi creature pesanti e faticose, per questo le vogliamo fermare, uccidendole, fotografandole, oppure fissandole alle nostre parole. In fondo pallottola, immagine e parola non sono che tre modi di una stessa profonda esigenza antropocentrica, quella di arrestare quel capriolo, la sua fuga libera e misteriosa. Eppure, allo stesso tempo, sentiamo che tutti i nostri sforzi sono vani, il capriolo fuggirà in ogni caso, perché non è che non riusciamo ad afferrare l’animale, piuttosto l’animale è la pura inafferrabilità della vita. È proprio la sensazione che ci rendono le foto di Shiras, che in realtà non sono le sue foto, ma nemmeno quelle degli animali, che non hanno alcun bisogno di fotografarsi. Si tratta di immagini che sembrano voler smentire la propria stessa natura, perché per un verso sono comunque immagini, e quindi porzioni congelate di vita, per un altro sono però immagini che cercano di cogliere il movimento della vita senza peraltro fermarlo. Una specie di cinema immobile.
È questa aporia che Bailly prova ad abitare, sostare nell’impensabilità dell’animale. Un’impensabilità che, in fondo, non vuol dire altro che l’animalità fugge via, sempre: in questo senso è fuggito via anche quello che abbiamo imbalsamato e appeso come un trofeo sulla parete di una casa di campagna, oppure di un museo di storia naturale. Allo stesso modo il capriolo che fugge via ci colpisce, ci tocca, come qualcosa di potente ed enigmatico, qualcosa di potente proprio perché nonostante tutto ci tocca: Bailly, infatti, si sente «toccato, sì, toccato con gli occhi, benché questo sia impossibile. Non che fossi penetrato in alcun modo in quel mondo», cioè il mondo della foresta del buio e del capriolo; «al contrario, era piuttosto come se la sua estraneità si fosse rivelata una volta di più, come se mi fosse stato permesso di vedere per un momento ciò da cui come essere umano sarò sempre escluso: quello spazio senza nomi e senza progetto nel quale l’animale traccia liberamente il suo cammino» (ivi, p. 8).
Qui va precisato che non è che l’animale è libero perché si trova nel suo cosiddetto habitat, come se trasportato in un ambiente diverso, ad esempio nel recinto di uno zoo, perdesse questa libertà. Questo è ancora un modo antropocentrico e misero di vedere l’animale; piuttosto l’animale è la libertà stessa, dovunque si trovi l’animale, nel bosco o intrappolato in una immagine. È questo lo scandalo dell’animalità, che è inafferrabile dalle nostre parole e dalle nostre categorie concettuali. Per questa stessa ragione siamo sempre a caccia degli animali, ché anche l’ecologista che insegue l’animale per coglierlo attraverso un’immagine memorabile, ebbene anche lui in fondo non sopporta la libertà animale, e la vuole infatti immobilizzare in una fotografia. In questo senso l’immagine è mortifera quanto il proiettile di piombo, o la parola che – come sinistramente dicono i filosofi del linguaggio – fissa il suo riferimento, cioè l’oggetto che corrisponde all’etichetta verbale.
Per questa ragione Bailly comprende, attraverso il capriolo in fuga, che la questione animale è quella della sua costitutiva impensabilità: «Quanto mi è accaduto quella notte, che sul momento mi ha commosso fino alle lacrime, era al tempo stesso un pensiero e una prova: il pensiero che non c’è regno, né dell’uomo né dell’animale, ma che esistono solo passaggi, sovranità furtive, occasioni, fughe e incontri» (ibidem). L’animale è un passaggio, non è una cosa, è una soglia, un frattempo. Per questa ragione è impensabile, perché le nostre parole non sono fatte per il movimento, bensì per decidere e scegliere, o qui o là. L’animalità, invece, non sceglie, semmai mostra quanto ogni scelta sia parziale e deludente. Come Derrida per primo ha scoperto, se c’è una parola insoddisfacente e mistificatoria è proprio la parola “animale”, ché con un gesto di straordinaria presunzione pretende di racchiudere in un solo concetto l’incredibile e innumerabile diversità di forme di vita presenti sulla terra:
Parlare di animali. Malgrado prove ed espedienti, mi sono reso conto che molto spesso le dichiarazioni accalorate che si possono fare sugli animali non solo non ottengono l’effetto sperato, ma creano una sorta di imbarazzo, come se si fosse inavvertitamente oltreppassato un limite e ci si fosse ritrovati a dire qualcosa di inopportuno, se non di osceno. La scelta che allora si impone è ingrata: ritrattare il proprio discorso per discrezione o gettarvisi per testardaggine (ivi, p. 11).
È questa “sorta di imbarazzo” il tema del libro di Bailly, che prova a nominare e pensare quel che lui stesso sa benissimo non va nominato né pensato. E non perché ci sia qualcosa di difficile da capire in quel capriolo in fuga, come se quella fuga rappresentasse un problema scientifico particolarmente complesso. È evidente perché fugga il capriolo, non c’è proprio niente da capire. Il fatto è che nel capriolo, come negli animali che appaiono come fantasmi nelle fotografie di Shiras, si mostra il fatto misterioso del mondo. C’è il mondo, c’è l’animale, c’è la vita; qui non c’è niente da capire né spiegare, c’è da accettare questa vita, non c’è altro che lasciarsene afferrare, proprio come questi animali che, evidentemente, non sono nel mondo, ma sono il mondo stesso.
Questa condizione, che peraltro è quella della mistica, Bailly la definisce “pensività” (pensivité): si tratta della condizione di chi sosta di fronte alla sguardo animale, senza chiedere né aspettarsi risposte. Una “pensività” che è un pensiero che tuttavia ha rinunciato ad ogni arroganza, un pensiero che pensa soprattutto la sua stessa invadenza. Ecco allora che cosa “dice” lo sguardo animale: «Resta il fatto che questo sguardo è presente […] e la dimensione che apre sulla scena, qualunque altra cosa se ne possa dire, è ancora quella di una pura pensività, quella di un puro movimento incompreso nell’apertura umida dell’occhio che vede: un occhio che vede ciò che non può afferrare e, afferrando ciò che non afferra, guarda all’infinito» (ivi, p. 44).
Jean-Christophe Bailly, Il versante animale, Contrasto, Milano 2021.