Accade spesso che, dopo la morte di un autore, si avverta l’esigenza di pubblicarne manoscritti, appunti, diari, ovvero tutti quegli scritti nascosti nel cassetto che, per la loro natura di oggetti intimi e personali, sarebbero destinati a essere dimenticati, a non resistere al logorio materiale a cui li sottopone l’azione del tempo. Trovandosi tra le mani pagine di questo tipo, il lettore affezionato non potrà che sperimentare una gioia perlopiù imbarazzata quando si accorgerà di avere il permesso di entrare in punta di piedi in qualcosa che, di diritto, non gli spetta affatto. Meno frequente è invece che un autore, già nel corso della propria vita, decida di dare alle stampe ciò che, almeno per definizione, non dovrebbe essere affatto destinato alla pubblicazione. È questo il caso di Giorgio Agamben che, nell’ultimo testo pubblicato dalla preziosa casa editrice maceratese Giometti&Antonello (Il tempo del pensiero, 2022), ci ripropone gli appunti da lui presi durante due seminari tenuti da Heidegger nel 1966 e nel 1968 a Le Thor in Provenza.
Sono vivaci ed eccitanti le atmosfere che possiamo percepire sorvolando gli appunti, qui intervallati dalle fotografie scattate da Agamben stesso con la Polaroid che aveva acquistato in quel periodo. Gli spazi fotografici si pongono, in realtà, in contaminazione con la scrittura: le immagini si compenetrano con gli appunti perché a essere annotate sono non solo le discussioni filosofiche con i partecipanti al seminario, gli esercizi di traduzione o gli aneddoti su Husserl e Ortega, ma anche gli episodi vissuti, le escursioni a Thouzon e al monte Ventoux, le passeggiate verso Venasque e alla Montagne St. Victoire. Anche per questo veniamo catapultati in quei luoghi, possiamo sentirne gli odori di rosmarino, timo e lavanda e avvertire la consistenza dell’inchiostro della penna usata da Heidegger per segnare su un foglietto di carta a quadretti azzurri un’indicazione bibliografica richiestagli da Agamben. E, ugualmente, non saremmo in torto nel sostenere che il fascino di questi appunti risieda nella loro duplice natura laboratoriale.
Da un lato, infatti, ci ritroviamo coinvolti passo dopo passo nei tentativi di tradurre dei frammenti di Eraclito o alcuni passi di Hegel, tentativi appuntati talvolta in modo diegetico («Heidegger suggerisce che…», «Heidegger istituisce che…») o, più frequentemente, in forma mimetica. Dall’altro lato, in queste annotazioni non possiamo fingere di non impegnarci a scovare, spesso con fare maldestro, gli strumenti che condurranno Agamben all’elaborazione del suo pensiero – basti citare l’intuizione relativa alla trasformazione, avvenuta con la teologia medievale, dell’energeia aristotelica in «actualitas, una forma eminente dell’agere e dell’operari» (Agamben 2022, p. 64).
Non sbaglieremmo, certo, nel rinvenire l’origine della fascinazione in tutto questo, ma non potremmo al contempo non avvertirne l’insufficienza. Se, una volta chiuso il libretto, una certa eccitazione permane, forse resta ancora qualcosa che non quadra. Tutto torna e si risolve notando, in realtà, che ciò che avviene maneggiando questi appunti consiste nel trovarsi di fronte alla potenza di un gesto: un gesto che, come spesso accade nelle opere di Agamben, viene annunciato esplicitamente nell’Avvertenza iniziale: «Trascrivo qui gli appunti presi durante i seminari, così come sono conservati in due quaderni, che contengono anche annotazioni di altro genere. Ho apportato qualche ritocco solo dove gli appunti, per la loro forma abbreviata e contratta, rischiavano di risultare incomprensibili» (ivi, p. 6). Riproporre gli appunti come tali, è questo il gesto di Agamben. Ma da cosa scaturisce tutta la sua forza?
L’appunto è uno strano oggetto, difficile da definire e dai contorni sfocati, perché la sua esistenza sembra essere costantemente rimandata o sembra rimandare continuamente ad altro. Gli appunti sono cioè privi di una natura definitiva o compiuta; essi vengono costruiti con movimenti rapidi e superficiali per garantire una certa contemporaneità, ovvero un’aderenza dello scritto al flusso degli eventi e dei pensieri, e il risultato di questa dinamica è comunemente noto con il terribile nome scolastico di brutta copia, che attende, fremente, di trasformarsi in bella. Già gli hypomnemata, la forma più antica di appunti di cui abbiamo testimonianza, dicono di questa funzione preparatoria. Nati come promemoria e registri di conto nell’Antica Grecia, si diffondono presto nel pubblico colto come raccolte di «citazioni, frammenti di opere, esempi e azioni di cui si era testimoni o di cui si era letto il racconto» (Foucault 1998, p. 204), che potevano costituire anche «una materia prima per la redazione di trattati più sistematici» (ibidem).
L’opposizione che si verrebbe a creare è dunque tra un’opera compiuta e la sua fase preliminare. L’appunto è ciò che può avere una forma di esistenza solo perché esisterà un’opera che sarà la sua realizzazione; è la potenza brutta e informe che tende, infatuata, al suo atto perfetto; è la Bestia innamorata della sua Bella, il mostro che, solo agognando il bello e terminando in esso, può compiere la propria natura imperfetta. Che ne è, allora, dell’appunto in quanto tale? Già nell’Autoritratto nello studio, Agamben dichiara, con una certa emozione, di preferire ai libri pubblicati quei trenta quaderni uguali — rilegati in vari colori e posizionati su uno scaffale della libreria nel suo studio di Venezia — su cui ha appuntato nel corso degli anni «pensieri, osservazioni, note di lettura, citazioni – qualche rara volta anche sogni, incontri o eventi particolari» (Agamben 2017, p. 72). Se da un lato Agamben riconosce di preferire gli appunti alle opere finali, d’altro canto ritiene che, in fin dei conti, gli stessi libri da lui pubblicati non siano libri ma «preludi o epiloghi» (ivi, p. 75). Tra gli appunti e la stesura non c’è dunque quella forte differenza che comunemente si è disposti ad ammettere, perché «l’opera compiuta è anch’essa frammento e ricerca. Come nella musica, ogni ricercare finisce in una fuga, ma la fuga è letteralmente senza fine» (ibidem). Non è dunque così malsano quel mio caro amico che usa esclusivamente la matita per scrivere qualunque cosa e così facendo, pur senza esserne cosciente, giunge a pervertire la funzione primaria della grafite – il suo essere delebile – per trasformarla in assoluta determinabilità.
Una forma di scrittura che tenti di evitare la sua sistemazione in un’opera compiuta sembra però originarsi da un sentimento alquanto diffuso: il timore della fine delle cose, del loro dissolversi e svanire nel nulla. Sembra essere questo timore che muove Roland Barthes a scegliere la forma del frammento: «Poiché gli piace trovare, scrivere degli inizi, tende a moltiplicare questo piacere: ecco perché scrive dei frammenti: tanti frammenti, tanti inizi, altrettanti piaceri (ma non gli piacciono le fini)» (Barthes 1980, p. 108). La paura della fine, che in Barthes trapassa nel piacere degli inizi, subisce in Agamben una diversa trasformazione. Non può esservi timore della fine perché ogni conclusione, ovvero ogni esaurimento di una dynamis nella sua corrispondente energeia, è letteralmente impossibile. Le sue stesse opere ne sono una testimonianza: costellate di intermezzi, soglie e aleph, evitano un’organizzazione definitiva e si sottraggono con ciò a ogni pretesa sia di un nuovo inizio che di un termine risolutivo della ricerca. Come ci ha dimostrato in tutti questi anni Agamben, si tratta non tanto di eliminare l’opera, quanto di rendere quest’ultima inoperosa, affinché la potenza possa apparire e manifestarsi come tale nell’atto. Non finire dunque, ma continuare a finire: Gilles Deleuze utilizza quest’ultima formula ne L’Épuisé (1992) per descrivere la postura dell’esausto e Agamben, nel commentare quel piccolo saggio, non esita a definire esausta proprio quella possibilità «che non precede l’atto per esaurirsi in esso, ma lo scavalca e perdura al di là di esso» (Agamben 2015, p. 90).
Le opere compiute di Agamben, indiscernibili dai relativi appunti, sono sì ricerche infinite o fughe senza termine, ma un’opera che è i suoi stessi appunti è il gesto che, senza parlare, può esprimere l’incompiutezza di una vita, perché, esibendo nell’atto la potenza in quanto tale, mostra che le cose non possono smettere di accadere. «Non posso togliermi dalla mente l’incontro con Heidegger che, nella mia vita, che pure si avvicina alla fine, non ha ancora cessato di avvenire» (Agamben 2022, p. 5), scrive ancora nell’Avvertenza a Il tempo del pensiero. Non tanto gli appunti in sé quanto il gesto della loro pubblicazione, che consiste nel riproporre la loro natura incompiuta, ridefinisce l’immagine della potenza e ci mostra che l’incompiutezza — o l’irrealizzabilità — non è il difetto mostruoso che attende di perfezionarsi, ma è l’attributo stesso di ogni esistenza o, per usare le parole di Agamben, ciò che di essa resta. Già l’etimologia del verbo appuntare indica la possibilità di segnare qualcosa con un punto; ma se mettere un punto significa finire, completare, terminare, i punti che qui vengono disegnati sono piuttosto tre, quelli che rimandano non «a un senso ulteriore omesso o mancante […] ma a un’indefinizione di specie particolare» (Agamben 1996, p. 42), a una pura determinabilità.
E se è vero che la vivibilità di una vita non si esaurisce nel suo vissuto, capiamo allora perché tutto ciò che ci ha accompagnato continua necessariamente a farlo. L’addio, del resto, si dà solo a ciò che, scomparendo, cade nell’abisso del nulla: lo si dice ai morti, ma più in generale a tutte quelle atmosfere costruite da abitudini, gesti, volti e sorrisi che si sono concatenate assieme per un certo periodo e che, in un dato momento, devono essere abbandonate. Ma così come «in ogni vita i morti e i vivi sono compresenti» (Agamben 2017, p. 165), così anche il saluto a un luogo tanto aereo – come quello che io e molti altri ci troviamo a dare in questo periodo – non può trasformarsi in un addio, perché a rimanere sono le pose eterne che l’hanno imbastito e che continuano a farlo: gli occhi pronti e saldi di Fabio (che scrive con la matita), la postura nitida e volatile di Paolo, la grazia musicale di Michele (“molto yeah”, dopotutto), l’incedere di Ilaria così sprofondato nelle cose che sfiora.
Non posso dimenticare: è questo, in definitiva, il bassofondo continuo che percorre le pagine de Il tempo del pensiero. Il gesto di Agamben è così potente non solo perché rende indiscernibile il pubblico dal privato e la ricerca dall’esposizione, ma innanzitutto perché si fa espressione dell’ordine delle cose, della loro esistenza sub specie aeternitatis. Appuntare una vita… per continuare a finire.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’immanenza assoluta, in “aut aut”, 276/1996.
Id., Posture, in G. Deleuze, L’esausto, Nottetempo, Milano 2015.
Id., Autoritratto nello studio, Nottetempo, Milano 2017.
R. Barthes, Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino 1980.
M. Foucault, La scrittura di sé, in Id., Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998.
Giorgio Agamben, Il tempo del pensiero, Giometti&Antonello, Macerata 2022.