di CARLO FANELLI
Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati, a cura di Valentina Valentini.
«Il buio è quella zona dove tutto si macera e poi si ricompone, il simbolo stesso delle caverne, dove tutto viene forgiato. Ed è il luogo delle larve, dei mostri, il luogo del male, ma è anche il luogo dove il male stesso viene rigenerato, in un’altra dimensione, nel suo opposto. Da qui deriva la paura e il fascino che tutti provano per il buio. Nel momento in cui siamo attratti dal buio cerchiamo la luce, ed è al buio, con gli occhi che appaiono tutti i colori nelle loro infinite gamme».
Così diceva Franco Scaldati, una di quelle figure la cui esperienza pare non mancare al teatro italiano ma che, allo stesso tempo, ne rappresenta una presenza importante e ancora necessaria. È scomparso in silenzio, il 1 giugno 2013 a Palermo, dove ha deciso di restare per tutta la vita, segnando esperienze che, come spesso accade, la lancinante bellezza non è bastata a rendere visibili, note, diffuse: «Le opere di Scaldati soffrono di una sorta di impermeabilità che non le rende attraenti agli studiosi», sostiene Valentina Valentini (che ha curato Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai, raccolta di saggi esito delle giornate di studio dallo stesso titolo, tenutesi alla Biblioteca Nazionale di Roma, il 29 e 30 novembre 2017 e Notturno Scaldati, letture e intermezzi coreografici, in cui riecheggia il convegno, sempre a cura di Valentina Valentini, dedicato a Il teatro di Franco Scaldati, Università della Calabria 15-16 gennaio 2002, cui ha fatto seguito la lettura scenica di Lucio e A che punto e la notte, Teatro “Rendano” di Cosenza).
Sebbene la sua drammaturgia portata sulla scena risulti insulare ai più, questa stessa ha comunque respirato insieme a quella di Pasolini e Testori, Pirandello, Eduardo, Shakespeare, Heiner Müller e Peter Handke. Un teatro, quello di Scaldati, rintracciato nelle sue pieghe che ancora ci colpisce per la sua struggente e inattuale bellezza. I sui testi editi sono irreperibili, poiché non più disponibili presso le case editrici che li avevano pubblicati. Quelli inediti, la maggior parte della sua produzione, sono conservati nella casa di famiglia. Si tratta di: «Tredici testi pubblicati e trentasei inediti, cui vanno aggiunte undici riscritture tratte dalla letteratura teatrale nazionale e internazionale» (Raciti in Valentini 2019).
L’incedere poetico della scrittura di Franco Scaldati, nel quale si esalta la dimensione dell’oralità, avvolge il lettore nel mondo notturno e sognante e, allo stesso tempo, carnale dei suoi testi e delle figure che lo abitano. Creature notturne, eteree, “troppo” umane, figure femminili o di tonti che, per non restare ancorate ai bisogni terreni ed esprimerli con veemenze e tenerezza allo stesso tempo, muovono dal buio alla luce, da profondi meandri ai quartieri di Palermo, carichi di suggestioni e storie.
Il «Poeta delle caverne», come l’ha definito Franco Quadri, Scaldati ha sempre scelto di stare in disparte rispetto ai circuiti teatrali, sperimentando su Shakespeare e Femmine nell’ombra, «testo cardine» sottoposto a riduzioni e varianti, nel centro sociale San Francesco Saverio che un parroco illuminato, Don Cosimo Scordato (figura, per questo, importante nell’attività di Scaldati a Palermo), gli concede nel difficile quartiere palermitano dell’Albergheria dal 1995 al 2013. Un luogo «abitato da gente del luogo, emarginati che vivevano di espedienti vari, gente disoccupata, ubriaconi» (Imparato in Valentini 2019).
Eppure la solitudine del poeta si riversa nella figura solitaria dell’attore in scena che «dà corpo alla parola, per esibire una ferita dalla quale riverbera rabbia, preghiera, insulto, supplica» (Valentini 2019). Ciò che di molto importante avviene nella conversione in suono della parola scritta di Scaldati è che il dialetto si stacca dal mondo popolare, al quale appartiene, per divenire «lingua della poesia» nella sua forma più alta. Ciò implica «un prendere distanza dalla realtà» che non significa distacco dal «contesto sociale in cui il dialetto è utilizzato».
Piuttosto, ciò che la lingua di Scaldati opera in tale ambito è reinventare e arcaicizzare il dialetto, sino a renderlo oscuro e parlato da ben poche persone raggiungendo, tuttavia, una tensione poetica altissima. Ma Scaldati è “anche” attore, incarna e lascia risuonare le parole che, con fare architettonico e figurativo, stende sulla pagina. La parola “appare” sulla scena insieme alla figura del suo autore e di colui che la nomina, la evoca, la lascia risuonare; non la recita, finge, dissimula; del suo senso e del suo suono Scaldati salva ogni integrità, ogni tonalità, ogni sfumatura, il suo corpo la disegna e ne viene, a sua volta, disegnato.
L’evocazione di mondi è, in Scaldati, antinaturalistica, già dal Teatro del sarto (1990), il suo teatro non è neppure il luogo dei conflitti dove le frequenti figure dualistiche, le coppie di personaggi non portano sulla scena contrapposizioni in un dialogo che viene azzerato, almeno nella sua forma tradizionale. I protagonisti di Totò e Vicé (2003) ne sono la dimostrazione (ma anche Santa e Rosalia, Pupa e Regina), nonostante la dinamica, tenera e profonda, del domandare e rispondere su cui si fonda molta parte del testo. Sono attoniti, dalla «ingenuità cosmica», il loro è «un mondo di stupore e di creazione, di invenzione di regole e di passaggi continui da un mondo all’altro» (Martelli in Valentini 2019).
La figura femminile, nonostante la «prevalenza del maschile» e il «mondo androgino» scaldatiano, ha un notevole rilievo nel suo teatro. La sua presenza è declinata attraverso l’esposizione di corpi e voci, un’«evocazione ora rabbiosa ora dolente di profili di donna straordinariamente tesi verso abissi di passione o demenza» (Rimini in Valentini 2019). I modelli femminili del teatro di Scaldati non aderiscono ad alcun prototipo, essi sono «materia metamorfica» che non sfugge, tuttavia, al porsi come oggetto di desiderio, «proiezione onirica, icona sublime e perfino come portatrice di morte e potere».
Nonostante la sua esclusività, in termini di scrittura e messinscena, la drammaturgia scaldatiana si offre a possibili polarità. Nel 2007 la compagnia Tiezzi-Lombardi porta sulla scena, al teatro di Roma, una sua versione dei Giganti della montagna di Pirandello, il cui finale (mancante nell’originale) viene affidato a Scaldati. L’entità archetipica pirandelliana appare prossima alla lingua di Scaldati. «L’intervento di Scaldati non altera la sostanza dell’epilogo postumo, né dimentica i precedenti scenici, in primo luogo le regie di Strehler» (Merola in Valentini 2019). Tuttavia, il cunto scaldatiano si infrange sulla scena, nell’impossibile restituzione di quelle parole cui manca la sua vocalità, e contro una sconveniente imitazione che finisce per ridurre quasi a macchietta un passo che, sul foglio, presenta ben altre possibilità poetiche.
Il margine degli emarginati, da cui Scaldati guarda il mondo, lo pone in dialogo con Pasolini (Casi in Valentini 2019). Se Pasolini è innamorato del sottoproletariato e questo è il suo approccio con le borgate romane che fonde indagine antropologica e poesia e fa di questo «atto d’amore» la sua rappresentazione, Scaldati «sta dalla parte del sottoproletariato», da’ voce e poesia a questa dimensione umana emarginata che finisce per coincidere con l’umanità intera.
In Testori Scaldati ha un forte punto di riferimento: «Testori, è lui il mio maestro», dichiara senza remora alcuna. «La fisicità, la passione, la visceralità, la vita e il sentimento, i segni del corpo riscontrabili in ogni sua opera» (Serafini in Valentini 2019), sono concentrici con la poesia di Scaldati.
Sebbene Scaldati non percorra i sentieri del tragico, nella sua drammaturgia egli assume «la sconfitta come metafora della vita» (Palladini in Valentini 2019). Anche la regia risulta dissolta, a favore di «un’esperienza dell’essere teatro […] un teatro nudo, necessario, senza distinzione di ruoli, senza luogo, quasi senza rappresentazione» (Di Salvo in Valentini 2019).
Scaldati ha sempre criticato le dinamiche culturali italiane, posizione scomoda e intransigente che emerge anche nel documentario agiografico Gli uomini di questa città io non li conosco che Franco Maresco ha dedicato a Scaldati nel 2015. Un’opposizione al cinismo dilagante, di chi non si è nemmeno accorto che un poeta, in silenzio e con pudore, ci ha lasciati. Colui che diceva:
«Tutto sommato vorrei essere la coscienza critica del teatro italiano, la spina nel fianco. Solo che gli altri se ne fregano, non mi considerano tale… il mio teatro si pone continuamente il problema del perché fare teatro, perché esserci, per chi fare teatro… è chiaro che non lo facciamo per l’appagamento di noi stessi… un teatro che è portatore di poesia violenta che chiede perché esserci e cosa fare, e chiede implicitamente un cammino verso un rapporto più solidale tra gli uomini. E che non si guarda allo specchio, non si appaga di se stesso così come sembra faccia tutto il teatro italiano di oggi».
Riferimenti bibliografici
A. Di Salvo, F. Scaldati, a cura di, Shakespeare e l’Albergheria. Momenti di un laboratorio teatrale, Tipografia “Alba”, Palermo 2001.
F. Scaldati, Il teatro del sarto. Il pozzo dei pazzi, Assassina, La guardiana dell’acqua, Occhi, Ubilibri, Milano 2008.
Id., Teatro all’Albergheria. La notte di Agostino il topo, Sonno e sogni, Ubilibri, Milano 2008.
Id., Lucio, a cura di V. Valentini, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
Id., Totò e Vicè, a cura di A. Di Salvo e V. Valentini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.
V. Valentini (a cura di), Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati, Titivillus, Corazzano 2019.