Non era scontato. Non era scontato che le cose andassero come sono andate, cioè bene. La più antica Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, nel momento il cui il mondo del cinema, e non solo, era in uno stallo sul da farsi, ha deciso con coraggio di ripartire. Coraggio e scelta che attestano oltre agli indubitabili meriti di Barbera e Cicutto anche il profilo di una istituzione autorevole. Che come ogni istituzione ha (o perlomeno dovrebbe avere) il compito, in un momento di incertezze e fluttuazioni individuali e sociali, di indicare la strada. Che non può essere solo quella di garantire la sicurezza, ma anche quella di iscrivere il desiderio nelle pratiche di vita, e in questo modo dunque di riaprire il futuro.
Così è stato. Ciò che da “Venezia 77” nasce è dunque un desiderio di cinema. Che come ogni desiderio – e non bisogna scomodare Girard per questo – ha un carattere mimetico, nasce con e imitando gli altri. Ciò che in un festival conta è, al di là della possibilità di vedere film, proprio il desiderio che circola e si alimenta tra le persone, e che passa per lo scambio di pareri, suggerimenti, scoperte condivise. Per dieci giorni migliaia di persone si sono dimenticate delle mascherine che pur continuavano ad indossare, perché ciò che contava era il film appena visto o quello da vedere.
E qui veniamo ad una conferma, se ce n’era bisogno. La differenza tra schermi domestici e sala – come mostra esemplarmente un festival – non risiede tanto nella possibilità di vedere in forma più sacralmente auratica un film, quanto nella possibilità di condividere tale esperienza di visione. È questo che fa circolare il desiderio. La visione domestica è al fondo animata da una pulsione coattiva (da dove il binge watching), mentre la sala dà un libero desiderio di visione (da dove la cinefilia).
E il festival di Venezia di quest’anno, con meno glamour, ha rafforzato tutto questo. Appassionati, cinefili, critici, italiani e stranieri, sia pur in numero ridotto rispetto agli anni passati, hanno fatto del festival lo spazio-tempo in cui un desiderio prosciugato si è rialimentato. E ci auguriamo in modo irreversibile.
E a questo ha contributo anche una selezione notevole di film, non certo inferiore a quella di anni passati. Tra i film e le sequenze che restano di questo festival, per originalità di sguardo e innovatività di forma, ricordiamo la straordinaria modulazione dello spazio-tempo di The Wasteland di Ahmad Barhami, premio “Orizzonti” e film più bello del festival (come lo scorso anno lo è stato il premiato Atlantis), o il montaggio di immagini d’archivio e l’uso originale di musica contemporanea in un film notevole come Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, caratterizzato da un attento e innovativo lavoro compositivo e archeologico (lo sguardo all’Ottocento ha attraversato non pochi film del festival, da A World to Come a The Furnace).
E, proseguendo, il movimento inarrestabile di una donna, moglie e madre, che attraversa il dramma di Srebenica e si determina come il vettore che guida per intero la tensione drammatica di un film come Quo Vadis, Aida? della Žbanić, che rischia coraggiosamente soprattutto nella parte finale. E ancora i non pochi magnifici momenti contemplativi che attraversano un film come A Night in Paradise di Park Hoon-jung, o il senso del ritmo che tiene insieme cinema e pandemia, recitazione e vita nel piccolo-grande film di Ferrara, Sportin’ Life. Ed ancora il personaggio-fantasma del massaggiatore nella prima parte (la migliore) del film polacco Never Gonna Snow Again di Szumoska ed Englert, o il finale miracoloso – il più bello del festival – della ritrovata figlia nel troppo classico Dear Comrades! di Konchalovskij.
Insomma, di questo miracoloso “Venezia 77” resta molto. Anche come forma di resistenza alle notizie che vengono dall’Academy sui criteri per le candidature agli Oscar come Miglior Film, che devono rispettare principi di inclusione delle minoranze, fin dentro l’ideazione delle storie ecc.
Va detto senza mezzi termini: il cosiddetto “politically correct” risponde sempre ad un esercizio di potere, teso a disattivare meccanismi politicamente e socialmente pericolosi di emersione dell’eterogeneità dell’altro e delle sue istanze. È dunque un dispositivo di stabilizzazione sociale. Si tratta di direttive socialmente rassicuranti, che pretendono di rimuovere dalla società lo “sporco” che la abita (e che ritorna sempre), nascondendo sotto la presunta “correttezza” e “inclusività” l’annichilimento effettivo dell’alterità dell’altro.
E quando questo esercizio si trasferisce nell’arte e nel cinema sotto forma di prescrizione di compiti da attuare, allora ci troviamo non tanto in una forma di censura, quanto in una forma ben peggiore di inquietante propaganda di una idea di democrazia come “sanificazione” da esercitare ad ogni livello della vita sociale.
“Venezia 77” si è mostrata un antidoto a tutto questo, soprattutto nei suoi film più originali e coraggiosi. Un patrimonio e una riserva importante – in questo momento più di altri – per continuare a tenere vivo un pensiero critico del presente e un desiderio di cinema ad esso connesso.