Porta il titolo di un celebre saggio del 1961 scritto da Robert Rosenblum, l’antologia curata da Pietro Conte per Johan & Levi, Il sublime astratto (2024), volume che raccoglie, oltre alla sua introduzione, sette contributi pubblicati tra il 1948 e il 2002 da Barnett Newman, Erwin Panofsky, Max Imdahl, Jean-François Lyotard, Gottfried Boehm e Arthur Danto, oltre al già citato Rosenblum, sul tema del sublime, del suo ruolo nell’esperienza estetica e in rapporto all’arte.

L’introduzione di Conte ci orienta nella lettura e nella scelta di questi testi, partendo dal casus belli (Conte 2024, p. 9) che muove artisti e intellettuali contemporanei a una riflessione nuova sullo statuto della categoria del sublime nell’arte, in particolare nell’astrattismo di seconda generazione, di cui Barnett Newman e la Scuola di New York sono gli esponenti più noti. Si tratta di una famosa querelle tra Panofsky e Newman iniziata nel febbraio del 1961 con la recensione di George Kubler al saggio panofskiano Rinascimento e Rinascenze nell’arte occidentale, pubblicata dalla prestigiosa rivista ARTnews, contro cui il professore di Princeton si scaglia fermamente, opponendosi al tentativo operato dal recensore di estendere la validità della sua teoria della disgiunzione all’arte astratta americana del secondo dopoguerra.

Nella sua aspra risposta all’articolo di Kubler, Panofsky cita polemicamente l’articolo del giovane critico d’arte Rosenblum Il sublime astratto, prendendo a pretesto un semplice, quanto evidente, refuso editoriale nel titolo della tela commentata nel testo e andato in stampa come Vir Heroicus Sublimus, anziché Sublimis, per esplicitare la propria distanza ed estraneità da un ambito culturale e artistico che riteneva privo di un serio fondamento teorico. La risposta del rappresentante più noto di questo ambiente artistico nonché autore del quadro, Barnett Newman, non si fa attendere e, pur essendo costruita per proseguire la discussione sul terreno grammaticale in difesa della correttezza della forma Sublimus al pari di Sublimis, consente di spostarne il centro dal piano linguistico al piano estetico.

Nell’ultima lettera che chiude il carteggio, indirizzata da Newman ad Alfred M. Frankfurter e datata settembre 1961, infatti si rivendica con forza per gli artisti «il diritto di creare un linguaggio poetico, il diritto alla potestas audendi» (ivi, p. 48) tanto linguistica quanto espressiva in senso ampio. Panofsky non risponderà mai a questo affondo di Newman, e nemmeno avrebbe potuto perché «il suo impianto teorico era incardinato su un concetto di immagine che non trovava riscontro nell’arte che andava affermandosi in quegli anni» (ivi, p. 14).

Come spiegato nel famoso saggio Iconografia e iconologia, secondo Panofsky la possibilità di interpretare un’opera d’arte si fonda sulla consequenzialità dei tre livelli interpretativi propri dell’analisi iconografica (preiconografico, iconografico, iconologico) e su un concetto di composizione figurativa in cui le forme vengono definite come raffigurazioni di qualcosa, secondo un modello rappresentazionale-figurativo di tipo mimetico. Stando così le cose, è evidente che per Panofsky l’approccio iconologico non possa essere applicato all’arte astratta anogettuale in cui c’è un passaggio diretto tra motivi e contenuto e in cui, a suo dire, l’artista rinunciando al “qualcosa” dell’oggetto, rinuncia alla possibilità di esercitare la libertà di disfarsene e di andare contro di esso (ivi, p. 17), negando di fatto la libertà del gesto artistico tout court.

Ciò che sembra essere il bersaglio polemico al centro della discussione tra Panofsky e Newman e che ne costituisce il terreno comune, è il titolo di Vir Heroicus Sublimis (1950-1951), un’opera sorprendentemente ampia, di cinque metri e mezzo di larghezza per due metri e mezzo di altezza, priva di cornici e interamente ricoperta da un rosso intenso attraversato da cinque bande verticali (zip). L’importanza della questione non sta però nella correttezza formale dell’uso della vocale, come persino i due autori sembrano per certi aspetti ritenere, bensì nel titolo stesso e nelle domande che inevitabilmente porta con sé: per un teorico come Panofsky esso è e resta, vocale a parte, comunque incomprensibile, poiché la forma, su cui tutta l’arte astratta a suo dire si concentra, non trova riscontro nel contenuto, ridotto ai minimi termini (ivi, p. 19). Ma dunque: «Chi mai sarebbe questo vir? Dove rintracciare l’”eroe” del quadro? E in base a quale criterio lo si definisce “sublime”?» (ivi, p. 17).

Come sottolinea Conte, quel che Panofsky ignora è che il problema del contenuto, del what to paint, (ivi, p. 83) era anche al centro delle riflessioni di Newman, e ciò su cui entrambi inconsapevolmente concordano è nel rintracciare nella ricerca di una malintesa “arte pura” il limite dell’astrattismo tradizionale (à la Kandinskij e à la Mondrian), che non era riuscito a spezzare il paradigma mimetico della rappresentazione, operando una rivoluzione dal punto di vista formale che non era però coincisa con una svolta contenutistica. Ciò che nel 1948 Newman prospettava, insieme alla neonata Scuola Subjects of the Artist e nel suo saggio The Sublime Is Now (ivi, p. 29-32) era un’arte contemporanea il cui linguaggio fosse sì quello dell’astrazione ma con un nuovo subject matter, ossia un nuovo fondamento tematico, non più legato alla natura sensibile e alla rappresentazione dell’oggetto.

Il sublime diventa parola d’ordine per un ristretto gruppo di pittori, che mirano a rifondare il senso stesso del fare arte, e la chiave utile ad esprimere qualcosa che non somiglia al bel mondo (ivi, p. 20), ma piuttosto a dare voce all’esistenza dell’indeterminato attraverso il paradosso di una testimonianza determinata (ivi, p. 76). Questo rinnovato interesse per la categoria del sublime, in contrapposizione al bello, si accompagna a una svolta contenutistica che può essere adeguatamente riassunta attraverso le parole dello stesso Newman, intervistato da Lane Slate nel marzo 1963: «Posso però dire che ho contribuito a far passare la pittura (painting) dalla creazione di immagini (pictures) alla creazione di pitture (paintings). […] Chi fa immagini – non importa se realistiche o astratte – non fa pitture» (ivi, p. 21).

Vir Heroicus Sublimis è esattamente la testimonianza artistica di un nuovo uso della categoria del sublime e di un nuovo contenuto ricercato all’astrattismo americano, che si traduce in termini di esperienza estetica in una nuova modalità di fruizione dell’arte e che oltrepassa le concezioni moderne sette-ottocentesche del sublime, tenendo però le elaborazioni sul tema prodotte da Burke e Kant come costanti riferimenti teorici. Secondo le precise istruzioni che lo stesso Newman detta ai (pochi) visitatori della sua seconda personale ospitata alla Betty Parsons Gallery nel 1951, è necessario osservare le opere da vicino, essere al loro cospetto, esserne sommersi, essere faccia a faccia con l’informe e lo smisurato. È questa rottura con le regole di fruizione tradizionali, è questa vicinanza a fungere da innesco dell’esperienza sublime e dello scaturire di un sentimento di smarrimento e disorientamento che ci fa sentire come il Viandante sul mare di nebbia (1818) di Friedrich, con la differenza che non siamo chiamati ad empatizzare (ivi, p. 22) con il soggetto rappresentato nel quadro; siamo noi stessi i viandanti (ivi, p. 36), senza alcuna mediazione o filtro (ivi, p. 93).

Nel sublime astratto, contrariamente al sublime ottocentesco, la fruizione dell’immagine come “immagine di” viene superata: «L’immagine che produciamo è quella autoevidente, reale e concreta della rivelazione, che potrà essere compresa da chiunque la guarderà, senza le lenti nostalgiche della storia» (ivi, p. 32). Ad essere sublime quindi non è il contenuto del quadro, ma la pittura stessa: «Qui, ora, accade che… ed è questo quadro. Che ora e qui ci sia questo quadro invece che niente – questo è sublime» (ivi, p. 70).

La pittura si libera degli ideali di forma e bellezza e dei dispositivi classici che costituivano gli elementi fondanti della produzione e della fruizione tradizionale dell’arte bella. Ora il fruitore non è più spettatore, non è più di fronte a un dipinto da contemplare a distanza, bensì è attore, chiamato ad attivare ed essere parte dell’opera stessa, di cui è in balia e grazie alla quale è rinviato a sé stesso, alla propria elevazione e alla propria libertà (ivi, p. 53). L’esperienza del sublime, nella sua dimensione di oscillazione tra dispiacere e piacere, è esperienza dell’umano. Il Vir Heroicus è chiunque si apra alla fruizione dell’opera nel suo accadere, nel suo essere evento. Il significato dell’opera non è nella forma ma nell’effetto che essa produce: «l subject matter della pittura è il fruitore stesso» (ivi, p. 25). Sublime è chi guarda.

Il sublime astratto, a cura di Pietro Conte, Johan & Levi editore, Milano 2024.

Tags     Kandinskij, Mondrian, Sublime
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