
«Una vera attrice sacrificata inutilmente e per troppo tempo sull’altare dell’alienazione». Così, più di mezzo secolo fa, recensendo l’episodio intitolato La minestra – diretto da Franco Rossi – tratto da Le bambole (Risi, Comencini, Rossi, Bolognini, 1965) sulle pagine de “La Notte”, Onorato Orsini esaltava l’arte drammatica di quella che, nell’immaginario del pubblico italiano, sino ad allora altro non era stata che una «musa inquietante» (Seligardi 2017), modella plasmata da un artista, Michelangelo Antonioni, che considerava l’attore solo un elemento dell’immagine, e forse neppure il più importante.
Pensare Monica Vitti, a quasi trent’anni dal suo ritiro dalle scene, significa inevitabilmente confrontarsi con questioni ampiamente dibattute ma forse non problematizzate a sufficienza, come l’ampiezza del registro interpretativo e l’anomalia morfologica del corpo, non normativo «per eccesso» (Cardone 2017). «Troppo magra, troppo alta, troppo bionda» (Vitti 1993), Vitti è soprattutto troppo poco mediterranea per competere con ancelle della bellezza nazional-popolare quali Claudia Cardinale o Silvana Mangano. Con la sua sensualità cerebrale e inquieta, l’attrice incarna, nell’Italia urbana della Dolce vita, la donna ideale di quella borghesia intellettuale che va a vedere i film di Antonioni e legge i romanzi citati o letti dai suoi personaggi. Slanciata ma non androgina, la sua struttura fisica non evoca infatti in nessun modo il fantasma del materno, sottotesto simbolico della maggiorata, ma piuttosto quello di un femminino evoluto rispetto agli standard dell’Italia patriarcale, afflitto non tanto dal male di vivere, quanto dall’incapacità di comunicare la propria insofferenza per l’inautentico. Se, come afferma Stephen Gundle, «l’italiana nell’immaginario del mondo è l’incarnazione della bellezza e della seduzione» (Gundle, 2015), l’immagine nordeuropea di Monica Vitti – capelli biondi, incarnato pallido, aria severa – mette in crisi alcuni punti fermi dell’identità femminile italiana, sostituendo la recita della seduzione con quella dell’introspezione e proponendo nuovi modelli di comportamento: non più la chiusura remissiva nel focolare della famiglia, ma la libertà maschile dell’erranza e il piacere di assecondare i propri desideri, le proprie pulsioni, le proprie paure.
Poiché ogni immagine divistica è costituita dall’ibridazione tra la persona dell’attore e i personaggi interpretati, gravitare sull’”altare dell’alienazione” per Monica Vitti non è stato però inutile, al contrario. Basta osservare le copertine di alcuni numeri di “Oggi” degli anni sessanta e settanta, ad esempio quella, datata 1 agosto 1972, che promette un’intervista con la diva raccolta durante il soggiorno estivo a Porto Rotondo. Appoggiata al muro, come a tradire una misteriosa stanchezza, Vitti è ritratta in una posa incerta tra l’assorto e il malinconico, a conferma di come solo l’osmosi tra arte e vita possa conferire alla star l’indispensabile continuità di immaginario. I lettori sono invitati a scoprire la “vita segreta” di una “diva enigmatica” che però, suggerisce il titolo dell’intervista, ama “ad alta tensione”. L’ex-allieva dell’Accademia Silvio D’Amico sembra dunque avere completamente interiorizzato le inquietudini dei personaggi di Antonioni, i quali – e penso ai pedinamenti di L’avventura (1960) e L’eclisse (1962) – camminano senza meta ma soprattutto senza la forza necessaria per reagire agli stimoli ottici e sonori che li colpiscono. Più che ai gesti o alle azioni, Antonioni è interessato alla distanza prossemica e soprattutto all’effetto visivo generato dall’accostamento dei corpi degli attori alle strutture d’ambiente. “Io davo il mio contributo, ma c’era poco da contribuire – ha dichiarato l’attrice nel 1969 – per il regista-autore l’attore è come un paesaggio o un suono”. Un paesaggio tanto rarefatto quanto impenetrabile, come dimostrano le numerose inquadrature della nuca o dei capelli, dispositivi fondamentali per quella recitazione di spalle che, da Godard (Questa è la mia vita, 1962) a Bergman (Persona, 1966), rappresenta uno dei tratti distintivi dell’attore della modernità.
Se, come dice Marina Vlady, «un paysage c’est pareil qu’un visage» (Due o tre cose che so di lei, Godard, 1966), il volto – e in particolare il volto della Vitti drammatica – è uno spazio non leggibile ma «visibile» (Aumont 1992), su cui riverberano non le forze dell’azione, ma le rifrazioni dell’attesa. La protagonista di L’avventura, per esempio, non fa altro che attendere: attende prima il ritorno di Anna e poi conferme d’amore da parte di Sandro. E, mentre attende, guarda intorno a sé, come fanno le osservatrici osservate degli altri capitoli della tetralogia. All’orizzonte però, in questi paesaggi con figura, non c’è nessun infinito, ma solo la schiuma prodotta dal motore di uno yacht (L’avventura), la tenda nera di una finestra (L’eclisse) o il fumo nero di una ciminiera (Deserto rosso, 1964), frammenti di materia significanti quanto la schiena dell’attrice. L’anatomia visiva di Antonioni appare priva di ogni connotato voyeuristico e finalizzata unicamente ad esaltare il sex appeal (in)organico della musa, segmentata – penso all’incipit di L’eclisse – in figure geometriche quali il cerchio (la massa di capelli) o il rettangolo (le linee diritte del tubino nero).
L’”altare dell’alienazione”, però, non prevede solo la messa in forma del corpo, ma anche la vita. E non è necessario aspettare i tempi e gli spazi della commedia – da La ragazza con la pistola (Monicelli, 1968) a Polvere di stelle (Sordi, 1973) – per vedere la modella prendere vita e mettere in luce l’antica verve brillante, forgiata negli anni cinquanta sotto la guida di Sergio Tofano e spinta ora verso le corde del grottesco. Molti dei tipi femminili che hanno permesso a Vitti di assurgere a mattatrice del cinema italiano – dalla moglie infedele (L’anatra all’arancia, Salce, 1975) alla mancata uxoricida (A mezzanotte va la ronda del piacere, Fondato, 1975) – prevedono infatti la ricorrenza di posture, sguardi, atteggiamenti e tic già visti nel cinema di Antonioni. L’aspirante assassina di La minestra, ad esempio, manifesta la propria inquietudine per la (buona) sorte del marito sfregandosi le mani l’una con l’altra e agitando nervosamente i piedi, proprio come fa la protagonista di Deserto rosso: “Ma nun lo vedi che c’ho er patema?”.
Se la Vitti di Monicelli, di Risi, di Sordi fa ridere, quella di Antonioni ride, o meglio sorride. Come evidenzia un interessante videosaggio targato Fandor (The Versatility of Monica Vitti in Michelangelo Antonioni’s Film, Tope Ogundare, 2016), le eroine dell’incomunicabilità alternano l’apatia e l’inquietudine con improvvise, quanto fugaci, increspature di gaiezza, prodotte da un lavoro dell’attrice imperniato non sulla psicologia, ma sulla fantasia: «La fantasia – ha scritto Antonioni – s’accende da sola, non ha interruttori che le dita possano premere» (Antonioni 1994). Penso, ad esempio, al lento affiorare del sorriso sul volto di Claudia (L’avventura) nel treno durante l’ascolto della conversazione di due passeggeri, agli sguardi complici tra Valentina e le amiche in La notte (Antonioni, 1961), alla risata infantile con cui Vittoria (L’eclisse) rompe il silenzio durante la visita alla madre, gettandosi sul suo letto di bambina come a voler dimenticare l’angoscia del presente.
Ma la performance forse esemplare della dolcezza di Monica Vitti – come recita il titolo della bella mostra inaugurata a Roma qualche settimana fa (8 marzo-10 giugno 2018, Teatro dei Dioscuri al Quirinale, Roma) – resta, a mio avviso, il ballo sulle note di Mai (Mina, 1959) nel finale di L’avventura. Sandro l’aspetta per uscire, ma Claudia non ha fretta e accorda i gesti della vestizione alle parole di Mina, accompagnando la canzone con passi di danza improvvisati e maldestri, come maldestre sono le parole dell’uomo: “Lo sai che ti amo, perché devo dirtelo?”. Sul volto della ragazza una maschera di delusione soffoca le vibrazioni della gioia, ma solo per pochi secondi. Una volta che il partner ha lasciato la stanza, infatti, Vitti si esibisce, con un abile effetto di trascinamento, in un’inaspettata gag: infila le mani nelle tasche della vestaglia e le muove come farebbe una marionetta, congedandosi dalla cinepresa, dal partner e forse anche dal suo personaggio con un sentimento misto di rassegnazione e indifferenza. Perché questo, in fondo, ci racconta la Vitti di Antonioni: una faglia invisibile tra l’arte e la vita, uno stato d’animo incerto tra l’angoscia e la spensieratezza.
Riferimenti bibliografici
M. Antonioni, Riflessioni sull’attore, in Id., Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, a cura di C. Di Carlo e G. Tinazzi, Marsilio, Venezia 1994.
J. Aumont, Du visage au cinéma, Editions Cahiers du cinéma, Paris 1992.
L. Cardone, Monica Vitti: un corpo imprevisto, in “Arabeschi”, n. 10, 5.9 (2017).
S. Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana, Laterza, Bari 2015.
B. Seligardi, La musa inquietante. Monica Vitti nell’immaginario fra cinema, fotografia, letteratura e fumetto, in “Arabeschi”, n. 10, 8.1 (2017).
M. Vitti, Sette sottane, Sperling & Kupfer, Milano 1993.