Il sol dell’avvenire non è solo un film magnifico, ma anche rivelatore di un sempre più marcato asse ereditario Fellini-Moretti, che dagli anni cinquanta ad oggi – da Lo sceicco bianco a Il sol dell’avvenire – ha rappresentato in forma unica la vita individuale e sociale di un intero Paese, e attraverso di essa un modo d’essere dell’umano.

Il sol dell’avvenire presenta una forma romanzesca, che non consiste nell’imposizione di una struttura narrativa lineare, ma esattamente nell’opposto: cioè nel sapere tenere insieme una eterogeneità di situazioni narrative nel modo più libero ed imprevedibile, arrivando finanche a mostrare personaggi che cantano o che sfilano tutti insieme nel finale su via dei Fori Imperiali. Questa forma si fonda sul personaggio come intercessore dell’autore – qui direttamente interpretato dal regista stesso – e sulla prossimità commedica con la vita, l’unica che permette tale rielaborazione imprevedibile ed aperta della rappresentazione.

Ma Nanni Moretti ha sempre usato la forma commedia e il dispositivo comico ribaltandolo dall’interno. Se la commedia racconta l’integrazione sociale finale a cui approdano personaggi e situazioni, in Moretti tale forma pura di commedia è scartata in partenza per il carattere “esclusivo” dei suoi personaggi, che appartengono sempre ad una “minoranza” (giudicante) piuttosto che ad una “maggioranza” (partecipe), quindi sono collocati strutturalmente al di fuori del racconto commedico. D’altra parte però questa “maggioranza”, l’insieme degli altri che ci sono vicini o distanti, è sempre immaginata, sognata o idealizzata. È sempre cercata.

La comunità felice c’è sempre nel cinema di Nanni Moretti, a chiudere con finali puramente immaginati ciò che era drammaticamente disperso lungo tutto il film (come accadeva anche in Tre piani). Da un lato la realtà resiste a farsi commedia, dall’altro c’è una spinta verso la commedia stessa, che può essere però solo immaginata, cantata, danzata.

Questo accade anche ne Il sol dell’avvenire, dove vediamo – nel film che sta girando Giovanni (Nanni Moretti) – da un lato i fatti tragici dell’Ungheria del 1956, dall’altro il circo ungherese Budavari invitato al Quarticciolo di Roma da una sezione del PCI, di cui è responsabile Ennio (Silvio Orlando). Il circo presenta già in sé la condizione, nel travestimento comico e nella prova acrobatica, per far emergere una possibilità imprevista e felice dal corso drammatico delle cose.

Questa possibilità prende corpo quando Giovanni, che vuole raccontare quell’anno visto e vissuto dall’Italia, decide di immaginare altrimenti le cose. Questa possibilità giunge fino al punto radicale di prendere le distanze dalla storia, modificandola, facendola con i “se”. Ma fare una storia con i “se” significa fare arte, cioè cinema. E cioè poter far commedia di ciò che è stato tragedia.

Quindi il suicidio come destino assegnato fin dall’inizio ad Ennio, allineato alla posizione ufficiale del PCI, si ribalta in una iniziativa imprevedibile e coraggiosa di contrapposizione a tale posizione. Ennio prenderà il megafono, mobiliterà i compagni, reagirà, farà come la compagna Vera (Barbora Bobuľová) aveva detto fin dall’inizio. E questo cambierà il suo destino, quello del PCI e dell’intero paese.

Vera parla così non per una consapevolezza o per una coscienza critica particolari, ma per una sua capacità di amare e di disubbidire. Durante le riprese scarta imprevedibilmente dalle indicazioni di Giovanni, stando appiccicata ad Ennio, baciandolo quando non deve. E quando Giovanni le ricorda che questo è un film politico, gli risponde “Ma chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore!”.

Questa capacità di amare nasce da quella di disubbidire, di non fare come il regista le dice, di scartare dal copione previsto, di “improvvisare”. È da questa capacità di compiere una mossa imprevista che nasce l’amore, che si afferma la libertà, e che la vita può prendere una direzione commedica, liberandosi dalla tragedia a cui è destinata. Questa capacità nel film è rappresentata dalle donne, dai personaggi femminili, che vanno al di là di ogni pedagogia e di ogni formazione ideologica (segnata dal maschile), che significano inevitabilmente costruzione di un spirito gregario e allineato, che rinuncia a vivere, protetto nelle gabbie della corrispondenza ai dettami. Spirito che nasconde la mancanza di coraggio, travestita dalla “necessità di allineamento” che in certi momenti – dice Ennio a Vera che lo critica per la sua pusillanimità – è inevitabile.

Lo stesso Giovanni è capace di cambiare il finale previsto solo dietro iniziativa della moglie Paola (Margherita Buy) che, produttrice del film, ha il coraggio di dirgli che il finale con il suicidio la “spaventa”. E ha il coraggio di dirglielo solo quando ha il coraggio di lasciarlo, di separarsi, lei che per troppo tempo non è stata capace di reagire alla fatica di stare vicino a un uomo come Giovanni, con le sue nevrosi, le sue ossessioni, i suoi riti (vedere Lola di Demy prima dell’inizio delle riprese di ogni film).

Giovanni a quel punto decide di cambiare tutto. Si mette in scena lui stesso con il cappio al collo (finale tragico previsto) prima di passare alla sfilata finale con tanto di saluto allo spettatore (ribaltamento commedico). Uno dei momenti più intensi di tutto il cinema di Moretti.

Tutto il film si misura con l’orizzonte di possibilità immaginate e non attuate, e di possibilità attuate e non immaginate. Sono queste seconde ad aprire le prime. Sono i baci imprevisti di Vera, o l’abbandono scioccante di Paola, a cambiare direzione e finale al film. L’arte può e deve tracciare delle possibilità di vita e liberare i sentimenti che a queste possibilità sono connessi.

E il film da farsi non è solo accompagnato dai film fatti, da quelli dello stesso Moretti (sono innumerevoli qui le citazioni) a La caccia, Cassavetes, Coppola, Kieślowski; ma anche dai film possibili, non fatti ma immaginati, come quello tratto da Il nuotatore di John Cheever, o quello – meraviglioso – sui cinquant’anni della vita di una coppia raccontata attraverso le canzoni, dall’adolescenza in un cinema a vedere La dolce vita, con Lontano, lontano di Tenco come colonna sonora, fino al picnic sull’erba, oramai con i figli, accompagnato da Voglio vederti danzare di Battiato.

E poi c’è l’altro film parallelo, che produce Paola, il film violento, con la scena chiave del colpo di pistola. La scena più lunga di un film costruito per il resto con il raccordo rapido di situazioni narrative brevi, dove montaggio e invenzione della scena vanno di pari passo. Nella scena della pistola emerge un po’ tutto: l’idea di un cinema che rinuncia all’immaginazione, la posizione moralista di Giovanni che lo paralizza anche nella sua vita privata (vediamo l’insofferenza di Paola per tutta la scena), la ricerca di opinioni di uomini noti a sostegno della propria verità (il riferimento è qui al circuito comunicativo che rende significative le opinioni di chiunque su qualsiasi cosa, a cui lo stesso Giovanni non sembra sottrarsi). E soprattutto il rapporto con le giovani generazioni, qui rappresentate dal regista emergente entusiasta di tutto, della presenza di Giovanni sul set, della scena di violenza, in sostanza del suo sentirsi e presentarsi come regista.

Qui c’è dunque un altro tema importante che il film magistralmente mette in gioco e che riguarda il tempo, la maturità, il rapporto con la gioventù. Nei confronti della quale il tratto giudicante di Giovanni si mitiga nel riconoscimento di una certa inevitabile distanza. Come vediamo all’inizio quando, durante una riunione di lavoro, un giovane della troupe pensa che i comunisti siano solo sovietici, e che non ci siano mai stati in Italia.

Ma anche qui c’è una eccezione, ed è ancora femminile. È la figlia di Giovanni, Emma, nella situazione più poeticamente improbabile del film, quella che la vede innamorata dell’ambasciatore polacco (Jerzy Stuhr), molto più grande dei lei. Dopo lo sbigottimento iniziale, quando ad un pranzo la figlia annuncia di volersi sposare, Giovanni dirà che ora è felice, un mese fa non lo sarebbe stato. Giovanni riconosce, cambiando, l’amore come accordo imprevedibile di distanze, capace di tenere insieme in forma libera e senza prescrizione alcuna, nell’accordo di una comune passione,  l’eterogeneo, senza bisogno di troppe spiegazioni.

Sembrerebbe tutto, per un film ricco di invenzioni tematiche e formali. Ma ci accorgiamo presto invece che gli anni cinquanta, Budapest, il PCI, sono solo l’armatura, l’immagine di quell’insieme di prescrizioni, pedagogie, norme, di cui lo stesso Giovanni/Moretti deve disfarsi, morire (impiccarsi) per poter rinascere (sorridere e salutare).

Sono gli anni cinquanta in Giovanni/Moretti che andavano cambiati, liberati. Per questo accettiamo di buon grado la Storia fatta con i “se”. Perché in gioco è la storia con la minuscola, la storia di un uomo e di un artista, raccontando la quale Moretti – in linea di continuità con Fellini – racconta la storia dell’umanità in genere e del suo trovare la felicità per vie imprevedibili, e ben al di là della luce accecante del “sol dell’avvenire”; piuttosto in quella luce “lunare”, malinconica, in quella condizione di fragilità, che solo l’amore può trasformare nell’apertura di un tempo e di una vita nuovi (e qui tra le tante citazioni andrebbe aggiunto il Cechov di Habemus Papam).

Essere soli, individualmente creativi, spesso contro, ma allo stesso tempo aspirare e desiderare la comunione con gli altri, immaginandola, cantandola, danzandola: in questo troviamo il tratto tutto italiano ed umano dei personaggi di Fellini e di Moretti, e la loro grandezza inimitabile nel raccontare attraverso il presente la condizione umana universale.

E per questo possiamo chiudere, per raccogliere il senso del film, con le parole del Guido di Otto e mezzo, che potrebbero essere benissimo anche di Giovanni: al di là di ogni crisi, di ogni dolore e di ogni possibile tragedia, “è una festa la vita, viviamola insieme!”.

Il sol dell’avvenire. Regia: Nanni Moretti; sceneggiatura: Francesca Marciano, Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Clelio Benevento; musiche: Franco Piersanti; interpreti: Nanni Moretti, Mathieu Amalric, Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Jerzy Stuhr, Valentina Romani, Blu Yoshimi; produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 95′; anno: 2023.

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