“Pensavo che con la tua morte il mondo mi stesse dicendo la verità. Ma non lo stava facendo. Non c’è più verità ora rispetto a prima. Nessuno dice la verità. Dobbiamo stare in silenzio. Io starò in silenzio”.

Il diciassettenne Lucas pronuncia le sue ultime e fatidiche parole prima di chiudersi in un mutismo autoimposto pensando al padre defunto, appellandosi al ricordo ingombrante di un soggetto in via di dissoluzione memoriale e carnale, ma guardando in macchina, rivolgendosi quindi ad un’altra essenza aleatoria per l’economia diegetica del film: lo spettatore. 

In Winter Boy – Le Lycéen Christophe Honoré tratteggia una lotta di forze contrapposte che si distruggono e ricompongono a vicenda, collimando all’interno dei corpi dei protagonisti: una famiglia colta e scrutata da vicino in un momento di crisi, che tenta di risollevare la propria esistenza come polo nucleare efficiente e coeso. Lucas è il perno identitario attraverso il quale si esplicitano le difficoltà familiari: la sua gabbia esistenziale rappresentata dalla carne come locus di morte e di piacere è la rappresentazione sintomatica delle conseguenze della scomparsa del padre a seguito di un incidente stradale le cui cause sono – volutamente – incomprensibili.

Gli eventi che anticipano il lutto sono concatenati da una mise en scene che si esplicita a livello narrativo come destino intangibile, una predizione mistica e metafisica, per taluni versi mefitica: raccontando retrospettivamente la storia da un punto di vista intradiegetico la prospettiva di Lucas assume i contorni indelebili della materializzazione dell’intreccio filmico, correlando eventi passati come presagi futuri e significanti nella costruzione diegetica. 

Le conseguenze derivanti dalla morte del padre e dall’accettazione progressiva della propria omosessualità definiscono il corpo del protagonista come una biosfera di pulsioni, trappola di emozioni e sensazioni costrette in una concentrazione biologica e psicologica che impone la negazione e la soppressione degli stimoli per mantenersi integro e leggibile. Le manifestazioni emozionali riescono ad emergere solamente nell’isolamento forzato e nell’imposizione di una barriera volontaria verso l’esterno: la necessità di Lucas è di costruire uno spazio neutro in cui sistemare i pezzi dispersi del suo Io, dissolto e spezzato con la sperimentazione del lutto. Questa collide inevitabilmente con l’imposizione di un ordine morale e sociale che comprime e sopprime le scariche pulsionali, considerate inopportune per conservare l’integrità morale della famiglia.

L’esterno come Super Io castra metaforicamente l’adolescenza e le sue nevrosi, attraverso sublimazioni mediche come calmanti o sovrastrutture sanitarie che possano dare un nome e un volto accomodante e socialmente riconosciuto alla reazione alla morte. “Sii coraggioso” è il mantra che ripete l’ammasso di corpi di parenti che ingombrano l’inquadratura del funerale del padre, è l’imposizione ideologica che si manifesta in una madre che deve rendersi forte agli occhi dei figli dopo la perdita del marito, ma apparentemente cieca di fronte le necessità del secondogenito. 

Somatizzando l’incapacità di reazione al dolore interiore, l’unico modo per reagire sembra quello di interrogarsi sulla propria esistenza e sulle contingenze delle esperienze vissute, scandite da termini biologici e psicologici complessi, che si esplicitano nelle manifestazioni corporee e pulsionali della scoperta del sé. L’amore diventa un luogo inesplorato, considerato appannaggio di chi ha consapevolezza delle proprie emozioni e sensazioni: Lucas tenta di definire traiettorie identitarie in cui convergere, comprendendo la necessità di estraniarsi da sentimenti di coinvolgimento passionale e definendo la propria soggettività attraverso la scoperta e la sperimentazione sessuale. Nel momento in cui trova in Lilio l’unico oggetto del desiderio questo si infrange a causa del rifiuto, dell’eliminazione a priori di una relazione potenziale e risanante con l’esterno.

La decisione di avvolgersi nel silenzio sembra quindi necessaria per preservare l’integrità identitaria e dopo aver assaporato il dolore fisico di un tentato suicidio è correlata alla ricerca esistenziale di una consapevolezza metafisica che c’è veramente qualcosa oltre la morte, di un Dio che possa legittimare la scomparsa prematura del padre. Scriveva Picard «dove, nel mondo della fede, c’è morte, là c’è una frattura, una sosta: un cuore si ferma e col suo battito non soltanto bussa alla parete dell’aldilà, ma questa parete ripercuote il colpo nel mondo umano e il mondo stesso si ferma per un attimo» (Picard 1948, p. 22). 

Le stesse parole rappresentano una gabbia per le emozioni, il silenzio è dunque la rivelazione della verità interiore, il verbocentrismo è solo una maschera patinata che rischia di compromettere la stabilità dei rapporti interpersonali. Lucas, rivolgendosi al fantasma del padre/spettatore afferma con fermezza la sua decisione: “Fino a che non avrò accettato la verità, la mia bocca rimarrà chiusa. Sto entrando nel silenzio. Lo giuro su Dio”.

Il silenzio si impone come un vuoto strutturato fatto del valore sottrattivo del suono, imprimendosi nell’ambiente filmico non come esito negativo, ma come pienezza interpretativa data dal contrasto tra un pieno eccessivo e un diminuendo sonoro, fino alla sua dissoluzione completa. Accostando le definizioni di Chion all’interpretazione che del verbocentrismo viene fatta a partire dalle affermazioni di Lucas, sembrerebbe validarsi l’enunciato di Picard secondo cui «presto il mondo sarà anche privo di menzogna, ma non perché esisterà solo la verità, com’era in principio, bensì perché la menzogna oggi è ormai in grado di mascherarsi in maniera tale da sembrare verità» (Picard 2013, p. 21) . 

Il viaggio che Lucas compie a Parigi tentando di superare il lutto e che prelude al suo definitivo crollo psicologico si configura come un rito di passaggio dalla ristrettezza mentale propria della piccola comunità di campagna alla scoperta e alla sperimentazione di un universo multiculturale e globalizzato, in cui perdersi e ricomporsi, comprendendo  e definendo la propria posizionalità. Lucas si aggira per le strade parigine come un flâneur, vagando senza mai riuscire a stabilire rapporti con gli altri passanti, confutando il proprio assunto secondo il quale gli individui non hanno nulla in comune l’uno con l’altro. Convergendo in un pessimismo individualizzante, i suoi sporadici rapporti sessuali con altri ragazzi di cui non vuole neanche conoscere il nome rappresentano la negazione totale del sentimento amoroso, rinchiuso nella gabbia del silenzio e del rifiuto del nome come spersonalizzazione dell’individuo. 

Alla luce di una tale prospettiva analitica, riappropriarsi della parola sembra essere, dunque, l’unica via fattibile per determinare l’apertura verso l’esterno e l’inizio di un risanamento interiore. Non pare quindi così insolito che il percorso di rinascita psicologica abbia inizio utilizzando lo strumento musicale: Lucas ricomincia a parlare cantando una canzone in italiano insegnatagli da Lilio, mentre sua madre lo riprende con lo smartphone per inviare il video al fratello a Parigi. Lucas guarda in macchina un’ultima volta dicendo “Sì, ho fatto”: il film si interrompe, lo spettatore perde la sua posizionalità fantasmatica, la vita ricomincia.

Riferimenti bibliografici
M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001.
M. Picard, La fuga davanti a Dio, Edizioni Comunità, Milano 1948.
M. Picard, Mondo distrutto e mondo indistruttibile: viaggio in Italia, Il Margine, Trento 2013.

Winter Boy–Le Lycéen. Regia: Christophe Honoré; sceneggiatura: Christophe Honoré; montaggio: Chantal Hymans; musiche: Yoshihiro Hanno; interpreti: Paul Kircher, Vincent Lacoste, Juliette Binoche, Erwan Kepoe Falé; produzione: Les Filmes Pelléas, Canal+, Cine+, France Télévisions; distribuzione: Memento Distribution; origine: Francia; durata: 122’; anno: 2022.

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