Il deserto rosso (Antonioni, 1964)

Il più recente libro di Roberto De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia (Rubbettino, 2017) si apre così: “La teoria è qualcosa che si fa, non meno di un’opera d’arte. E condivide con questa il legame con il tempo da un lato e il desiderio di trascenderlo dall’altro” (p. 9).

No, non si sta dicendo che il teorico è un artista, ma si sta suggerendo di guardare alla teoria come si guarderebbe ad un’opera d’arte. Ci sono, anche nella teoria, percorsi d’autore, immagini da costruire e forme da plasmare con fiducia a patto di considerarne la plasticità e la temporalità. Del resto, uno dei pionieri della teoria del cinema, Béla Balázs, diceva che la teoria è tutt’altro che opprimente e rappresenta piuttosto “le grandi prospettive della libertà”. Entro queste prospettive di libertà si sono formati, nel corso degli anni, veri e propri “immaginari teorici”, luoghi di negoziazione tra il reale e il desiderio (il tempo e il trascendente, il mondo e l’arte) in cui l’osservazione e l’immaginazione hanno lavorato insieme, come due movimenti decisivi del processo teorico.

Nei primi anni della teoria del cinema, questi movimenti erano dettati dalla proiezione di un bisogno preciso, che era quello di capire che cosa fosse questa nuova macchina che narrava per immagini. Si capiva – lo diceva ancora Balázs – che nessuna arte poteva diventare grande senza teoria e non è un caso che i maggiori teorici della classicità fossero cineasti, inventori cioè di forme visive non meno che teoriche, veri disegnatori che hanno tratteggiato pensieri ispirati dalla magia, dal mito, dalla religione, dalla natura e dalla metafisica per dare senso a ciò che creavano. Certo, i movimenti di osservazione e immaginazione avrebbero poi proiettato, con il passare del tempo e il rafforzamento del discorso teorico, altri bisogni, quale quello di identificare tramite la teoria comunità scientifiche e culturali, che sono cresciute e si sono alimentate entro altri immaginari teorici, di pretesa esattezza e per certi versi anche di pretesa indipendenza e autonomia rispetto al loro oggetto.

Alle “teorie dei cineasti” (come titolava un libro di Jacques Aumont) si sono sempre più sostituite le teorie dei teorici e potremmo dire che tra il bisogno di teoria dei cineasti e quello dei teorici sia in gioco l’inclusione o l’esclusione del film in quanto “oggetto fluttuante” (p. 10) da cui partire, oppure cui tornare, che porta De Gaetano a svelare, in un acuto paradosso, uno dei tratti fondanti la teoria del cinema in Italia (e non solo): in molti casi – mossa dalla sua stessa fragilità e spinta dalla necessità di legittimarsi tenendo il passo ad un tempo del suo oggetto di studio e del dibattito culturale corrente – la teoria del cinema ha finito per tentare di includere il filmico escludendolo. I campi discorsivi si formano anche così, tramite una sorta di inclusione sotto condizione, di sospetta accettazione, e sarebbe stimolante tentare di tracciare le linee grafiche di questi campi, che oscillano tra la visione e il rigore, tra la forma conchiusa e l’aperto, che inseguono le spirali del dispositivo andando a cercarne le ragioni del funzionamento tra i suoi ingranaggi, oppure fuori da essi.

Di questi campi, di queste forme e di questi disegni, tratta il libro di Roberto De Gaetano, che batte la strada di una mappatura formale delle teorie italiane, in una struttura ad incastro che, nonostante l’eterogenea natura dei diversi capitoli, manifesta una coerenza di pensiero in grado di svelare da una parte la costrizione del paradigma e dell’eredità culturale – la riflessione sull’estetica neoidealista consente di capire molto anche della nostra critica, se pensiamo, come scrive l’autore, che in fondo il marxismo critico altro non era che “il ribaltamento sul piano della prassi di quello che la prima collocava al livello dello spirito” (p. 96) – e dall’altra le zone di resistenza costruite attorno all’irriducibilità del cinema ad uno schema (è il caso dei capitoli dedicati a Zavattini e, soprattutto, a Pasolini, ma non meno dei pensieri dedicati agli ultimi lavori di Montani o di Casetti).

Il gesto radicale quanto decisivo di porre la teoria alla stessa altezza dell’opera d’arte, ci ricorda che la teoria, al pari dei film, può essere un luogo di amplificazione del senso – come di “ottusità” – e di sedimentazione del sentimento, di quel senso e di quel sentimento risuona, quel senso e quel sentimento di continuo rielabora, in un modo diverso da quel che fa la critica (che pure, in certi casi non solo cinematografici, è stata ed è opera d’arte), dove l’architettura formale cede il posto ad un disegno più d’incursione che Christian Metz descriveva affidandosi all’immagine del “raid”. Comprendere se una teoria respira, valutarla sullo stesso terreno su cui si valuta l’opera d’arte può essere di grande utilità e soprattutto favorisce quella “determinatezza” (p. 26) del pensiero teorico invocata da De Gaetano, che mette in guardia da un farsi centrifugo della teoria, da una tendenza alla generalizzazione tematica e terminologica che finirebbe per rimettere in discussione una specificità che, seppur aperta e dinamica (e non potrebbe essere diversamente con un oggetto come il cinema), questo libro dimostra essere stata raggiunta con fatica, nel tempo e per più vie.

La questione dei percorsi autoriali della teoria finisce in fondo per riguardare l’autore stesso di questo volume. Il cinema e i film è la riedizione ampliata di un libro del 2005 che si intitolava Teorie del cinema in Italia, sempre edito da Rubbettino. Anche se alcuni capitoli sono rimasti gli stessi (vi si aggiungono – oltre ad una Introduzione che prende di petto la contemporaneità della teoria – nuove riflessioni su figure di teorici e filosofi quali Emilio Garroni, Pietro Montani, Francesco Casetti e poi Alain Badiou rispetto al tema del ritorno all’opera), va detto che il libro è talmente diverso che è stato giusto cambiargli il titolo. Anche in questo caso è diverso a causa della nuova temporalità in cui è inserito, proprio come accadrebbe alla riedizione di un romanzo, o alla nuova messa in scena di un testo teatrale.

Non è possibile, infatti, per chi ha seguito in questi anni la riflessione di Roberto De Gaetano, svincolare la pubblicazione de Il cinema e i film dall’operazione pluriennale del Lessico del cinema italiano. Con il Lessico era partito un ripensamento della tradizione italiana che ha voluto porsi come una proposta di storia teorica delle forme del nostro cinema. Una nuova messa a fuoco della questione cinematografica italiana strutturata per campi di forze generati da lemmi e orientati al ritorno ai film, alle forme del contemporaneo e al recupero genealogico del loro prodursi, in un’ottica a un tempo calviniana e godardiana, per cui il nostro cinema avrebbe manifestato perfettamente, lungo la prima di queste due direttrici, “cos’è Italia e cos’è anti-Italia” e, lungo la seconda, avrebbe accolto nelle sue costruzioni formali, nelle sue pratiche gestuali, nelle sue elaborazioni attoriali una lunga tradizione, una “lingua”, che riconfigurava un’identità e un sentimento.

Il cinema e i film è un passo ulteriore nel confronto con questa idea di Italia. Veniva prima del Lessico, ma ora gli torna alle spalle e riattiva la riflessione sulla lingua della teoria, su una lingua che, anche in questo caso, cerca di mediare il rapporto tra il cinema e il mondo entro un contesto culturale particolarmente situato. Il quadro neoidealista con cui De Gaetano apre il volume, e che dà davvero il senso di una “via” della teoria in Italia, possiede una lingua che si posa sui pensieri di teorici come Barbaro e Chiarini, una lingua che non cessa di lavorare nemmeno dentro l’opzione marxista e che trova pochi veri luoghi di esplicita messa in crisi (tra cui i contributi di Galvano Della Volpe, che – come i libri di Brunello Rondi – meritano di essere riletti). Ripartire dalla matrice del neoidealismo italiano significa ripensare, oltre la teoria, anche la critica cinematografica – un altro cantiere di nuovo aperto al fianco di quello teorico – e di afferrare con chiarezza le ragioni profonde del più acuto sguardo francese nei confronti del nostro cinema.

Per reimpiegare, con licenza, un’intuizione zavattiniana cara a De Gaetano, bisogna insistere sul fatto che la teoria debba saper “restare nella scena”, cioè “nei film”, perché è da lì “che ha in sé tutte le possibilità di echeggiare lontanissimamente” (Zavattini, 1997, p. 79). Zavattini e Pasolini sono stati per molti versi la nostra modernità, quella che faticava ad attecchire sulle riviste e nella saggistica (a metà degli anni Sessanta, Guido Aristarco tuonava che la teoria del cinema in Italia non aveva nemmeno il lessico adatto ad avviare la sua opera) e lo sono stati interrogando il cinema mentre lo facevano, o facendolo mentre lo interrogavano. Di nuovo, a rileggere i capitoli a loro dedicati, ci si riconferma nell’idea che davvero il loro asistematico pressing sul mondo per il tramite del cinema trovi nell’attaccamento alla vita il suo scarto rispetto al resto del dibattito e ci si rende conto, tra le vie e le vite di queste teorie italiane, come anche il pensiero del cinema abbia una sua porosità, non diversa da quella delle immagini, ed abbia lo stesso potere di “aprire la storia” – come direbbe Didi-Huberman – di evidenziarne la differenza, di formalizzarne l’impurità.

Riferimenti bibliografici
B. Balázs, Estetica del film, Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1954.
R. De Gaetano, a cura di, Lessico del cinema italiano, vol. I, II, III, Mimesis, Milano, 2014-2016.
R. De Gaetano, Il cinema e i film. le vie della teoria in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
C. Zavattini, Polemica col mio tempo, Bompiani, Milano 1997.

Share