La Resistenza è l’esperienza fondativa della nostra comunità repubblicana, democratica, antifascista. I suoi caratteri epici la elevano a mito: a narrazione leggendaria e reale al contempo. Ovviamente tutto questo è stato reso possibile da un elemento: la scrittura, e specificamente quella dei protagonisti. Memorie e diari da un lato, e racconti e romanzi dall’altro hanno davvero creato – e non solo gettato le basi – di quel mito fondativo, che è la Resistenza.
Ora, se si rileggono a volo d’uccello le pagine scritte a caldo, o comunque fino ai primi anni cinquanta, quando ancora l’esperienza resistenziale poteva non considerarsi conclusa (è ovvio che dopo la consegna delle armi nell’aprile del ’45, le elezioni del 1948 segnano già il primo momento di chiusura con il passato bellico), si nota che si impone un modello narrativo abbastanza ricorrente. L’eroe partigiano è fisicamente forte, molto abile, coraggioso, e capace di affrontare le più svariate situazioni; inoltre – ed è questione ben più rilevante – dimostra una lucida consapevolezza politica, che è già definitiva nei comandanti (si pensi alle memorie di Giorgio Bocca o Dante Livio Bianco), ed in crescita evolutiva nei personaggi meno colti. Questa impostazione provoca due conseguenze: la prima è che l’intreccio narrativo nei libri resistenziali trova il suo compimento nell’azione (nell’azione di guerra ovviamente), dove l’eroe può esplicare tutta la sua grandiosità; in secondo luogo il partigiano non conosce vere esitazioni, e può tutt’al più avere qualche titubanza, che però viene poi superata. Inoltre l’eroe si costituisce della stessa sostanza degli altri partigiani, che insieme creano un movimento compatto e unitario: quello che è alla base appunto della Resistenza, e certamente della retorica che l’ha raccontata.
L’esempio più evidente di questo pattern è certamente L’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò. L’eroina, infatti, non ha mai paura, è sempre determinata, e sa prendere le decisioni. Inoltre conosce una crescita che è sia militare che ideologica: prima nasconde la radio, poi diventa staffetta e infine capo delle staffette. E proprio quando assume ruoli dirigenziali può anche lanciarsi in discorsi politici. In più Agnese muore, ma – come è ovvio – la sua tragica fine non inficia il finale positivo, che è dato dalla storia reale (gli eventi accaduti), più che dal romanzo. Agnese è una martire, che attraverso il suo sacrificio rende visibile (al lettore) l’impeto della spietata violenza che si abbatte contro il diritto, la ragione, la fratellanza umana; un sacrificio chiaramente riscattato, poi, dalla vittoria finale.
Quest’ultimo punto chiarisce anche un ulteriore aspetto della narrativa resistenziale: la separazione manichea tra il bene e il male, tra partigiani e fascisti. I primi hanno sempre un nome, parlano con altri partigiani, spesso cantano (lo sottolineavano Giovanni Falaschi nella sua Resistenza armata, 1976, e Andrea Battistini in un saggio su Viganò) e sono associati a valori cromatici variopinti; i fascisti – oltre agli aspetti tematici più evidenti: violenti, assassini, spietati e rozzi – sono rappresentati sempre dall’esterno (il narratore non condivide con loro alcuno spazio), urlano, sono circondati dal vuoto (ancora il saggio di Falaschi lo spiega con precisione) e sono contraddistinti dal nero, dal buio, dallo scuro. È insomma una divisione tra Uomini e no, come giustamente recita il romanzo di Vittorini, uscito a caldo (1945) e di fatto specimen, insieme all’opera di Renata Viganò, di che cos’è il romanzo italiano della Resistenza.
Se si osserva il fenomeno a più di settant’anni di distanza si nota un paradosso: se è vero che esiste un pattern del romanzo resistenziale (eroe partigiano valoroso, divisione manichea tra il bene e il male, trionfo dell’azione, consapevolezza ideologica) è anche vero che le opere resistenziali davvero entrate nel canone – e oggi ancora lette e sopravvissute alla consunzione dei tempi e agli attacchi ideologici di sempre più frequenti rigurgiti reazionari e di scarsa sensibilità democratica – segnano uno scarto rispetto al modello. Le storie letterarie, oggi, parlano di Beppe Fenoglio e de Il sentiero dei nidi di ragno (1947) di Calvino, e ridimensionano la presenza di Vittorini, di Viganò, per non parlare di Banditi (1949) di Chiodi (opera magistrale, amatissima di Fortini, ancora molto letta fino a vent’anni fa, e oggi decisamente meno considerata). E fino a qualche anno fa, oltre a Calvino e Fenoglio, addirittura il Pavese de La casa in collina (1948) – con Corrado che proprio all’esperienza partigiana si sottrae – trovava un suo posto nel canone resistenziale.
Ora, al di là del valore letterario, per quale ragione il canone diverge dal modello di riferimento? Non è soltanto un criterio estetico ad aver determinato questa cristallizzazione del canone (che poteva assumere dimensioni più ampie, o distinguere una versione ufficiale della guerra partigiana, da un’altra più sfuggente): certe opere si sono imposte perché hanno delle caratteristiche che fanno sistema con la narrazione che racconta genesi e sviluppo del romanzo italiano del Novecento; detto in maniera più semplice, e forse anche più corretta, certe opere hanno una fisionomia più novecentesca di quanto emerge da Uomini e no, L’Agnese va a morire, Banditi, ecc. Una rapida lettura de Il sentiero di nidi di ragno può essere esemplificativa.
Il romanzo italiano del Novecento è tendenzialmente modernista: si apre con Pirandello, Tozzi e Svevo, prosegue con Gadda, e trova nello sperimentalismo secondo-novecentesco una sua naturale prosecuzione (Morante, Volponi, Consolo, ecc., secondo una linea che Toracca ha definito neomodernista). È sin troppo facile notare come in questi romanzi il personaggio sia, se non un inetto (come si diceva un tempo), un eroe meditabondo e incapace di puntare tutto sull’azione; e soprattutto come tutta la macchina narrativa sia sempre proiettata a mostrare la possibilità di una verità più articolata, sfuggente, interiore, irriducibile alle tinte forte del bene e del male. È esattamente quanto accade ne Il sentiero dei nidi di ragno.
Com’è noto Calvino non sceglie degli eroi a tutto tondo come oggetto di raffigurazione del suo romanzo, ma un bambino, Pin, gettato nella più sgangherata brigata ligure: quella del Dritto, che riunisce sbandati di ogni tipo, da carabinieri reazionari arrabbiati con gli studenti, a misogini che odiano il mondo dopo essere stati traditi dalla moglie, a chi viene tradito sotto gli occhi nell’accampamento, fino allo stesso comandante, che anziché guidare i suoi uomini si preoccupa degli sguardi amorevoli di Giglia (la moglie di Mancino, appunto). Si tratta di una comunità che non sembra essere troppo distante da quel sottoproletariato tanto amato da Pasolini pochi anni più tardi. Del resto i partigiani del Sentiero sono elementari e brutali, privi di qualsiasi coscienza politica e in fondo antifascisti quasi per caso: «Basta un nulla per salvarli o per perderli» (come appunto accade a Pelle, che improvvisamente «s’è presentato alla brigata nera», denunciando tutti i suoi compagni).
Inoltre i partigiani di Calvino non agiscono. Due battaglie li riguardano: nella prima, addirittura, quando Pin arriva in brigata, fanno retroguardia senza sparare nemmeno un colpo; nell’altra, invece, prendono parte ai combattimenti, ma senza il loro comandante, che è rimasto ad amoreggiare con Giglia. Ma soprattutto quello che colpisce è che in nessuno dei due casi Calvino si preoccupa di descrivere la battaglia: al contrario il racconto si sofferma su quanto accade nell’accampamento, mentre la guerra è lontana. Non solo, ma quando si riferiscono gli eventi bellici – soprattutto nel secondo caso, quando Mancino e gli altri sparano – si ricorre al passato, abbandonando il presente indicativo, che è sistematico in tutto il romanzo (secondo una modalità, che è tipica del romanzo e della memorialistica resistenziali).
Il distaccamento del Dritto, nell’economia del romanzo, trova facile riscatto da un punto di vista ideologico. Innanzitutto vi è il noto capitolo IX: certamente non il più bello del romanzo e non privo di passaggi didascalici, ma quanto basta a garantire la correttezza politica dell’operazione. Come spiega Kim, i partigiani di Calvino non hanno ideali, ma stando dalla parte giusta si ricreano e si rigenerano, potendo poi (forse) dare un contributo all’Italia che verrà (fosse anche solo a livello di testimonianza). Ma soprattutto – come accade in tutti i romanzi della Resistenza – il distaccamento del Dritto è garantito dalla storia: hanno vinto i partigiani, cioè i giusti; e non occorre ribadirlo, perché implicito nel racconto (un racconto, che è un romanzo pubblicato da Einaudi, e scritto da chi ha partecipato alla guerra di liberazione, ha scritto sul “Politecnico”, ed è anche tesserato PCI). Secondo un principio che è tipicamente fenogliano (e non occorre ricordare come nella Prefazione del ’64 Calvino indichi proprio in Una questione privata il romanzo che ha saputo rappresentare la guerra partigiana), la Resistenza è “cosa giusta”, e non ha bisogno di essere edulcorata e imbellettata: anche Dritto, Pin, Cugino e gli altri diventano eroi, perché hanno dato il loro contributo.
Ma c’è dell’altro. I personaggi di Calvino proseguono l’onda lunga del primo Novecento (Zeno, Pascal) e del romanzo degli anni trenta (Silvestro di Conservazione in Sicilia, 1941, per certi aspetti Gli indifferenti, 1929, e in ogni caso il personaggio inconcludente di quel periodo), secondo una traiettoria che trova i suoi antesignani nel tardo Ottocento (Verga, per non cadere in equivoci). Già Dritto è “malato”, e per questo non può agire, ricalcando una linea che da Zeno Cosini arriva a Michele Ardengo. Ma è Pin il vero eroe novecentesco del romanzo.
In primo luogo è sin troppo facile rimarcare come sia un protagonista ricalcato su Rosso Malpelo: un bambino solo, sfruttato a lavoro, che cerca nella natura qualche elemento di consolazione, e che non riesce a trovare forme di soddisfazione affettiva. Ma l’aspetto da sottolineare è la sua contraddittorietà, questa sì tipicamente novecentesca. Pin è un bambino, che come tale si innamora dei ragni che sanno fare il nido; ma sa parlare solo con i grandi, ed è capace di deriderli. Al tempo stesso è ovviamente inferiore agli adulti, ma è anche molto più scaltro, venendo dal carruggio ed essendo un fratello di una prostituta che si è sempre dovuto arrangiare: è insomma inferiore e superiore agli altri partigiani. Inoltre disdegna i coetanei, perché ingenui, ma contemporaneamente li cerca disperatamente. E la stessa contraddittorietà ce l’ha con tutti gli altri personaggi: li insulta, ma vorrebbe essere amato. È insomma un personaggio scisso, incompiuto, non realizzato e che forse – come Zeno, Michele, ecc. – non potrà mai trovare realizzazione.
Attraverso questa scissione – lo rimarcava a suo tempo Claudio Milanini – Pin si offre come specimen dell’uomo del Novecento: un «tipo», per dirla con Lukács, capace di esprimere quella condizione modernista che in fondo informa tutto il Novecento. Ed è anche per questo che Pin, insieme a Milton, a Johnny e agli personaggi fenogliani, si è imposto nel canone: si configura come un uomo del Novecento, tormentato a livello esistenziale; anzi come un bambino; o più correttamente come un bambino-uomo (uomo-bambino), condannato da una cresciuta non finita e a una crescita infinibile. Quell’impasse che muove da Pirandello e arriva fino alle soglie del nuovo millennio: passando appunto per Calvino.
Riferimenti bibliografici
A. Battistini, Le parole in guerra. Lingua e ideologia dell’“Agnese va a morire”, Bovolenta, Ferrara 1982.
G. Bocca, Partigiani della montagna, Feltrinelli, Milano 2004.
I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, Mondadori, Milano 1993.
Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1947.
P. Chiodi, Banditi, Einaudi, Torino 2015.
G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino 1976.
C. Milanini, L’utopia discontinua, Carocci, Roma 2022.