Il primo libro che ho letto di Philip Roth è stato il Lamento di Portnoy. Non ero adolescente, anzi, avevo ampiamente superato i vent’anni e letto già diversi autori ebrei di area anglofona, canadesi, americani o naturalizzati americani: il Potok di Il mio nome è Asher Lev e di Danny l’eletto, e poi certo, Saul Bellow e i fratelli Singer, Isaac e Israel. Altri ne avrei letti in seguito, come il grandissimo Henry Roth e il suo Chiamalo sonno o La versione di Barney di Mordecai Richler. Eppure, la lettura di quel lamento mi colpì con un’emozione che era un grumo di sofferenza e sovversione, di irrisione tragica delle nevrosi, ebraiche e non, dove ritrovavo tratti familiari genialmente esplorati e incarnati in una scrittura perfetta.
Philip Roth è stato il più innovatore, il più coraggioso, il più classico di questi scrittori. Classico in un senso epocale, classico perché ha trovato posto – da vivo e nonostante l’ormai leggendario Nobel mancato – in una tradizione letteraria che ha lui stesso contribuito a creare ma anche a superare, nelle forme dello scrivere e nei contenuti (sempre che una distinzione del genere abbia ancora senso o abbia senso parlando di Philip Roth). Dalla scrittura libera del Lamento di Portnoy, alla costruzione di dialoghi perfetti, i suoi romanzi hanno luogo nel presente, nel passato e in un immaginifico futuro.
Roth è stato certamente uno dei più grandi scrittore ebrei a cavallo tra XX e XXI secolo. A differenza di Chaim Potok, ad esempio, ha però espresso un’identità ebraico-americana tout court: Roth ha parlato anche dell’ebraismo attraverso l’America e non il contrario. Philip Roth è stato, a differenza forse di altri, il più grande romanziere americano anche ebreo, e questo nonostante la cultura ebraica si percepisca come costitutiva delle sue pagine, dei titoli dei suoi libri, dei nomi degli alter ego che ha via via scelto e delle sue tematiche. La sua grandezza è stata, non soltanto, ma anche questa: la grandezza di osservare e narrare l’uomo e l’America non da ebreo ma anche da ebreo. Soltanto l’Allen Ginsberg di Kaddish ha forse incarnato nella poesia questa identità ebraica risolta proprio perché profondamente americana. Nella loro abissale lontananza letteraria, entrambi erano nati, anche se a qualche anno di distanza, in quel pullulare di ebraismo americano a due passi da New York che è stata la città di Newark, nel New Jersey.
Roth è stato soprattutto, attraverso i suoi libri, il grande indagatore delle nostre pulsioni e contraddizioni più profonde. Il tratto forse più ebraico che ritroviamo in Philip Roth è probabilmente proprio questo: interrogarsi e interrogarsi ancora, in relazione alle proprie contraddizioni e conflitti interiori e indagarle, costruendo una narrazione perfetta. Soprattutto, Roth indaga le pulsioni dell’uomo e la loro potenza in relazione ai ruoli che via via ricopre nella società: professionale, familiare, genitoriale o filiale e, nel Lamento, anche quello di paziente. Proprio quel lamento potrebbe essere tacciato di onanismo, ed è invece una stupefacente narrazione, una storia vera e propria. Roth ha costruito personaggi a tutto tondo e indimenticabili, ha sovvertito in modo rivoluzionario l’uso dello pseudonimo che molti scrittori legati anche alla tradizione ebraica hanno avuto (a partire dal nostro Svevo, per citarne soltanto uno molto lontano da Roth) facendo il contrario, mettendo direttamente in scena se stesso. E non solo. Roth ha scritto e portato all’eccellenza la lingua che è stata per lui la lingua madre: è stato uno dei più grandi romanzieri ebraico-americani che non ha vissuto la schizofrenia linguistico-culturale di molti scrittori ebrei europei, come Elias Canetti o lo stesso Kafka, né la scissione che pure ha riguardato alcuni grandi scrittori di matrice ebraica che hanno però scritto in yiddish.
Quel lamento e quella pastorale sono in verità un grido e un’epopea. Quel lamento è il grido di un figlio, di un uomo, mentre Pastorale americana è l’epopea di un paese còlto in un momento conflittuale e cruciale della propria storia che travolge anche il rapporto tra un padre perfetto e una figlia. Ma è contrastabile un ideale che crolla? E, soprattutto, ha senso contrastarlo o è questo crollo da cui sgorga la sincerità della vita, per quanto dolorosa? Questo, anche, sembra uno dei nodi centrali dei romanzi di Roth, che indaga il conflitto tra la forza imprevedibile e destabilizzante del desiderio e quella consolidatrice e preordinata del ruolo. In altre parole, ci narra lo scontro tra il vitale e il mortifero, tra la vita e la morte. Le emozioni, l’istinto di vita sembrano sempre andare oltre il ruolo e la sua relativa idealizzazione: un padre ama una figlia incessantemente, anche quando questa gli appare irriconoscibile; un uomo s’innamora anche quando il ruolo di professore imporrebbe prudenza; una persona avanti negli anni prova desiderio anche quando l’età dovrebbe comportare un rallentamento delle pulsioni erotiche; il tradimento del vincolo matrimoniale avviene e alla fine non si comprende più se il vero Inganno, titolo di un altro romanzo di Roth, sia il tradimento o il vincolo matrimoniale stesso.
Philip Roth ha saputo esprimere tutta la tragicità della nostra esistenza quando ci troviamo privi di riparo, quando siamo esseri finiti in un gorgo che non sapevamo esistesse, dentro o al di fuori di noi. E lo ha fatto non tralasciando mai la potenza, prima di tutto, della narrazione e di una qualità dello scrivere ogni volta più stupefacente, da La macchia umana, a Patrimonio, a Nemesi. Moltissimo è già stato detto su Philip Roth e tanto ancora e sempre si scriverà, poiché i suoi libri hanno la qualità intrinseca dei veri classici: non smetteranno mai di parlare all’uomo, ad ogni uomo, proprio di lui.