Sembrerebbe una scena già vista o già letta. Lo scrittore ormai maturo s’inerpica, ancora per una volta, lungo gli ampi scalini del museo. Nello scialo, improvvisamente ammutolito, e quasi offuscato, dei meravigliosi capolavori, ad isolarsi dinanzi ai suoi occhi è però un’unica tela. L’ago spasmodico dell’attenzione si orienta, senza alcun tentennamento, verso il nitore glaciale di un solo quadro. E il novello Bergotte deve prepararsi, con docile rassegnazione, a subirne per l’ennesima volta l’imperiosa bellezza. Lo scrittore è Paolo Volponi, nato a Urbino. La tela è la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca.
Per delineare i termini sentimentali del rapporto tra Volponi e Urbino si potrebbe partire da qui, da quest’opera – una mirabile «congiunzione misteriosa di matematica e pittura» la definì Roberto Longhi – che non cessò mai di affascinarlo. Volponi si dispone infatti dinanzi alla tela di Piero con la medesima, ansiosa riverenza con cui osserva l’amato paesaggio urbinate. Ed è lui stesso, in un documentario girato per la Rai nel 1973, a parlarci delle affinità profonde che sussistono tra quel quadro e la sua terra. Della stessa qualità gli appaiono «l’aria, lo spazio, la limpidezza, il silenzio, il rigore»; e finanche un «certo tono metafisico che blocca i gesti e sigilla l’umanità». Ma l’elemento in comune più significativo è in realtà veicolato dal valore conoscitivo della prospettiva.
Come Piero della Francesca, insieme ad altri immensi artisti rinascimentali, riuscì a raffigurare per la prima volta i propri soggetti immersi in uno spazio moderno, profondo, mobile e analitico, similmente la città di Urbino, guidata dall’astro politico di Federico da Montefeltro, riuscì a superare i limiti del borgo medievale e a divenire eminente centro propulsivo della nuova cultura rinascimentale. È infatti proprio «nella prospettiva», secondo Volponi, che Urbino «ha acquistato il suo spazio storico». C’è un elemento però quantomeno bizzarro, che nell’elenco succitato non deve passare inosservato. La prima parola che Volponi pronuncia per abbozzare l’inconsueto paragone fra quadro e paesaggio è «aria». Che nella tersa luce zenitale della Flagellazione fosse possibile scorgere persino i colori adamantini dell’aria. Longhi lo aveva, in un certo senso, più che suggerito nel suo memorabile saggio su Piero, peraltro così apprezzato da Volponi.
Per lo studioso, infatti, in quel quadro anche gli intervalli vuoti fra le figure umane acquistavano un peso spaziale e uno spessore corporeo precisi: «La nuova certezza spaziale […] non si condensava astrattamente solo nei corpi ma circolava fra essi inavvertita e fatale; e fra i gesti posati delle statue corporee, altre statue invisibili di spazio […] si saldavano colandosi senza residui negli intervalli». L’aria che inavvertita circola fra i colli e le torri di Urbino possiede dunque, agli occhi così sinesteticamente ricettivi di Volponi, la stessa solidità materica dell’etere opalescente di Piero. La medesima vitalissima ricchezza di riflessi e nuances.
Ad ulteriore conferma di questa inedita liaison si potrebbe ricordare un passo volponiano tratto da un saggio del 1963 dedicato alla terra del Montefeltro. Fra le sue colline l’autore percepisce, quasi con timore, la presenza corrosiva di un’aria «strana», che gonfia e restringe il paesaggio a proprio piacimento come in un lentissimo avvicendarsi di sistole e diastole. Si tratta, ancora una volta, di un’aria che «taglia, che incalza e che lavora il paesaggio come in una pittura di Piero della Francesca». Questa densità espressiva dell’aria va collegata all’uso rivoluzionario che Piero ha fatto della prospettiva. Nella Flagellazione si rappresentano in una sintesi spaziale di cristallina perspicuità due scene non contemporanee; in primo piano degli uomini “moderni”, che civilmente conversano; e poi sullo sfondo la crudeltà della scena antica, in cui Cristo viene frustato, mentre Pilato impassibile assiste. L’aria che circola fra i diversi gruppi di figure è funzione di questo dislivello spaziale, e al tempo stesso lo rivela.
Un simile doppio livello iconico è presente in un’altra opera urbinate di Piero, anch’essa amatissima da Volponi: il dittico che ritrae i profili di Federico da Montefeltro e della consorte in primissimo piano, mentre sullo sfondo lascia sfumare il paesaggio en plein air sottostante la città. Anche in questo caso i due piani visivi sono distinti, ma fortemente connessi. Ancora con Longhi infatti, è per via di geniali «raffinamenti pittorici» che Piero ha creato tra di essi una «nuova intimità delle lontananze».
Quest’ultima, ossimorica espressione potrebbe essere assunta come motto riassuntivo dell’esperienza letteraria di Volponi. La duplicazione solidale del diverso è infatti una chiave di volta non solo per comprendere il nesso problematico di distanza ed affettività, con cui Volponi si sporgeva sulla sua Urbino, ma anche per rileggere vaste zone della sua opera. Basterebbe pensare ai clamorosi sdoppiamenti di Aspri/Murieta in Corporale; o alla coppia divergente e speculare formata nelle Mosche dal giovane Saraccini e da Tecraso, operaio “flagellato” dal capitale; e perfino all’intuizione della «doppia lastra» linguistica su cui secondo Pasolini erano state dipinte le pagine di Memoriale.
Per Volponi la possibilità di duplicare l’esistente, e dunque di lenirne le asperità, era un modo per darsi, e per darci, sempre una seconda possibilità nella lotta per la trasformazione delle cose. E di lavorare, seppure all’interno del modus vivendi capitalista – di certo non amato, ma comunque esattamente conosciuto – in vista di un altro orizzonte possibile. Tra i muri che separano la stolida realtà del presente dall’utopia rarefatta di un diverso equilibrio umano solo l’aria di Urbino, così energica e nutriente, poteva dunque continuare a liberamente soffiare.
Si tratta della stessa aria di cui Masaccio si servì, secondo un’altra splendida intuizione volponiana, per «allargare» la propria pittura, impastandola con la terra disseccata di un’umanità marginale e negletta. «La crescita, in ogni piccolo paese, è affidata al vento, alle correnti, agli incontri». È proprio con l’ausilio di quest’aria sopra Urbino, che Volponi ha potuto dunque a sua volta allargare la riottosa mescola della nostra prosa letteraria. La fortuna di averla ricevuta copiosamente in dono dalla sua terra non deve far dimenticare il merito e il coraggio di averla voluta e saputa, fino in fondo, respirare.
Riferimenti bibliografici
R. Longhi, Piero della Francesca, in Id., Da Cimabue a Morandi, Mondadori, Milano 1973
P.P. Pasolini, Il mostro e la fabbrica (1962), in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, II, Mondadori, Milano 1999.
P. Volponi, Misterioso scenario per una rappresentazione finita, in Romanzi e prose I, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2002.
Id., Il principio umano della pittura-scienza, in Romanzi e prose I, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2002.
Id., Cantonate di Urbino, in Romanzi e prose II, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2002.
Per la lettura che Volponi fa della Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca si può vedere il documentario Rai Paolo Volponi torna a Urbino da Gli scrittori raccontano, a cura di A. Zanoli, 1973, fruibile sul web al link: https://www.youtube.com/watch?v=0n5NFnEFqYc&ab_channel=sipsun8.