“Kimi-tachi wa dō ikiru ka” recita il titolo originale de Il ragazzo e l’airone, traducibile con “E voi come vivrete?”. Ma la domanda da cui Miyazaki ramifica il racconto non risponde in realtà ad un interrogativo: si tratta, a ben vedere, di un’esortazione. Che può essere letta in direzioni infinite, anche apparentemente contrarie tra loro, per come rivolge le intenzioni autobiografiche dell’autore tanto verso chi il film lo ha realizzato, quanto in direzione di chi ne recepisce le istanze. E proprio come nel precedente Si alza il vento (2013), culmine e al tempo stesso principio di un cinema che trasmuta la biografia in metafora universale di (r)esistenza, anche nel suo ultimo lungometraggio Miyazaki guarda a sé stesso, alle dinamiche più recondite del proprio animo, per metterle in comunicazione con gli spazi (personali e collettivi) della nostra intimità. Fino a sovrapporli sullo stesso piano. Quasi come se ognuno di noi fosse legato da un unico, inseparabile, destino, che ci costringe ad abitare – e quindi, a condividere – le sofferenze, le emozioni e le conseguenze (catastrofiche? edificanti?) del mondo a cui apparteniamo.
L’interrogativo di partenza, sovrapposto idealmente al titolo – e quindi alle istanze del film – apre allora a spazi di riflessione che abbattono le barriere fisiche tra autore e spettatore, tra personaggio e alter ego biografico, in modo da diffondere messaggi (etici, politici, e soprattutto morali) che trascendono sin da subito culture e confini fisici. E per farlo Miyazaki parte da quell’elemento che accomuna, democratizzandole, le esperienze di tutti gli esseri umani: il trauma.
Il prologo de Il ragazzo e l’airone prende piede in medias res, nel pieno del conflitto nippo-americano: la città di Tokyo è in fiamme, e durante uno dei bombardamenti viene colpito l’ospedale dove lavora la madre del piccolo protagonista, costringendo il giovane Mahito a vederla bruciare davanti ai suoi stessi occhi. Il dolore della perdita è incommensurabile, e al termine della guerra, per cercare di cicatrizzare ferite che (forse) non si rimargineranno mai, il padre lo porta a vivere in campagna insieme alla nuova moglie Natsuko, la quale appare talmente simile alla madre, da porsi, agli occhi di Mahito, come fonte e specchio di una ferita che non smette di reiterare i suoi effetti traumatizzanti. Almeno finché tale dolore, sembra suggerire Miyazaki, non venga declinato in una realtà altra, ontologicamente e iconograficamente opposta a quella reale. Ma a cui, nonostante tutto, risulta inestricabilmente intrecciata.
In linea con i fenomeni che stanno attualmente riconfigurando l’industria animata giapponese, Miyazaki sceglie di raccontare sé stesso e le ferite “materne” che sin da giovane si porta dietro attraverso i linguaggi metafisici del sekai-kei. Il genere, codificato da Hideaki Anno con Neon Genesis Evangelion (1995-1996) ed evolutosi negli ultimi tempi nelle grammatiche dell’isekai per mezzo del “fenomeno Shinkai”, lega di fatto l’interiorità-in-divenire del personaggio con le trasformazioni fisiche dell’ambiente che lo ospita, in modo da intrecciare idee, vissuti ed esperienze personali ai destini transitori del mondo in cui si manifestano.
Da questa prospettiva, la necessità di Mahito di accedere al “mondo sottostante” per salvare il suo alter-ego materno (cioè Natsuko) e portare così a risoluzione il trauma che lo sta affliggendo, è da intendere allora come il motivo attraverso cui si sintetizzano tutte le istanze del film; ovvero come l’elemento (estetico, semantico, narrativo) che squarcia il velo tra interno ed esterno, tra ciò che appartiene al “mondo di sopra” (quindi al nostro) e quel che avviene nelle profondità della terra (il mondo diegetico del racconto) e che porta così Il ragazzo e l’airone ad agire simultaneamente su due piani. Sempre paralleli, interagenti, e per questo sovrapponibili da un punto di vista simbolico-rappresentativo. In pieno stile sekai-kei.
A questo punto è lecito sollevare un dubbio: come è possibile che nell’opera più simbolica e deliberatamente (auto)riflessiva della sua carriera, il regista giapponese abbia scelto di affidarsi ai linguaggi di un genere così idealmente – se non addirittura, culturalmente – distante dalle grammatiche del suo cinema? La considerazione è indubbiamente legittima, ma nasconde in sé delle incomprensioni di fondo. Perché da qualunque prospettiva lo si guardi, Il ragazzo e l’airone è, a tutti gli effetti, la sublimazione del percorso estetico e filosofico di Miyazaki. Per quanto le trasmigrazioni corporee in una realtà altra e priva di confini siano qui riconducibili alle leggi grammaticali del sekai-kei, ciò che mettono simbolicamente in scena, le istanze che dal basso ne strutturano le fondamenta, si originano incontrovertibilmente dagli universi espressivi del cineasta. E lo vediamo a partire dall’elemento linguistico che da sempre fonda il cuore della poetica miyazakiana: cioè il movimento.
Per il maestro il movimento non è solo il connubio di azione ed emozione, ma ciò che genera la narrazione: quindi storia, intrecci e sistemi rappresentativi, con tutto quel che ne consegue in termini di cornici e sottotesti etico/politici. Nel caso de Il ragazzo e l’airone la caduta verticale di Mahito – simile alla precipitazione nel vuoto di Sheeta ne Laputa – Castello nel cielo (1986) – lega ad un livello di superficie la compenetrazione tra il visibile (la ferita) e l’invisibile (la foce del trauma), e ad un livello più recondito/simbolico la delineazione di un percorso “orizzontale” verso la risoluzione traumatica.
Una linearità, questa, che passa anche attraverso le variazioni dello spartito espressivo. Se nella parte iniziale del film i movimenti, così come la successione dei quadri, appaiono iperrealistici e naturali, in continuità con le forme grezze della cosiddetta “scuola realista” (di cui non a caso fa parte il direttore dell’animazione, il leggendario Takeshi Honda), la seconda frazione ritrova invece le figure rotondeggianti e iperboliche di matrice ghibliana. E il motivo è da legare proprio alla natura altamente simbolica dell’espressione miyazakiana, nonché al modo in cui il maestro genera storie e vissuti a partire dall’animazione di uno spazio-in-movimento.
Fino a che il segno animato appare netto e crudo, non è un caso che Mahito non abbia alcuna possibilità di concepire né tanto meno di metabolizzare il dolore della perdita. Ma non appena il ragazzo abbandona gli spazi “referenziali” del mondo reale, per rifugiarsi nelle soglie di una realtà liminale, dove l’interiorità si frattura per manifestarsi patologicamente nell’ambiente esterno, ecco che l’immagine miyazakiana torna ad innervarsi di segni e corporeità sinuose. Solo in questa cornice – e perciò all’interno della classica estetica ghibliana – Mahito può arrivare ad accettare Natsuko come figura materna. E iniziare così un percorso che lo porti (e ci porti) oltre l’orizzonte del cordoglio.
Si ritorna così alla questione iniziale. Come sempre accade nelle sue narrazioni, Miyazaki non è interessato qui a fornire risposte chiare né tanto meno a risolvere definitivamente gli enigmi. Quello che conta ne Il ragazzo e l’airone, e che lascia emergere il cuore poetico del racconto, è la necessità di offrire all’individuo la possibilità di scegliere, individuando nella libertà di distruggere (e distruggersi) oppure nella facoltà di risanare le proprie ferite l’essenza filosofica a cui tende tutto il suo cinema. Pensiamo infatti agli epiloghi di Nausicaä della valle del vento (1984) e di Principessa Mononoke (1997), dove la conclusione delle ostilità e la rispettiva catechizzazione sui pericoli cataclismici del nucleare o del dissesto socio-ambientale non comporta la risoluzione di tutte le crisi, ma l’anticipazione di un futuro che (può essere) migliore, proprio perché ai posteri è stata ora donata una possibilità di arbitrio, che i loro predecessori non avevano avuto l’opportunità di conoscere – né tanto meno di immaginare.
Ed ecco che il titolo scelto da Miyazaki si pone come un’esortazione, e non come una mera interrogazione. Perché Mahito poteva continuare ad agitarsi nel grembo “sicuro” di una realtà idealizzata, pura, dove i richiami del trauma erano percepiti come grida di un mondo lontano nel tempo e nello spazio. Eppure sceglie (consapevolmente) di distruggerla. E l’immagine su cui il maestro conclude il film, non lascia a riguardo alcun dubbio su quale sia la sua posizione nei confronti del personaggio/alter-ego, e per estensione di noi che ne osserviamo la maturazione/evoluzione. Mahito sente il richiamo del padre, gli risponde dalla stanza, e si chiude la porta dietro le spalle. Ci si aspetterebbe un raccordo, un contro campo che mostri la prosecuzione di quella ritrovata armonia, eppure per la prima volta nella sua filmografia Miyazaki conclude il racconto non con la parola “fine” ma con una dissolvenza in nero.
Sigillandosi dietro i fantasmi del passato, Mahito ha perciò deciso come vivere; ha compreso che la costruzione del futuro passa dalle (piccole, ma coraggiose) scelte che prendiamo quotidianamente. Ed è proprio qui che Miyazaki rompe le barriere tra sala e schermo, e chiama in causa noi spettatori. Esortandoci così a scegliere, a liberarci dei vincoli che ci limitano nelle azioni mondane. Fino a ridestarci con una semplice, e mai scontata domanda: e voi come vivrete? Al momento non è dato saperlo. L’unica certezza la ritroviamo nella incontestabile modernità di un cinema, che dopo più di 50 anni non si stanca ancora di interrogarci con questa forza. E che ci rende così, meravigliosamente, indifesi.
Il ragazzo e l’airone. Regia: Hayao Miyazaki; sceneggiatura: Hayao Miyazaki; fotografia: Atsushi Okui; montaggio: Takeshi Seyama, Rie Matsubara, Akane Shiraishi; musiche: Joe Hisaishi; interpreti: Soma Santoki, Yoshino Kimura, Kō Shibasaki, Masaki Suda, Aimyon, Shohei Hino, Takuya Kimura, Kaoru Kobayashi; produzione: Studio Ghibli, Toho, Studio Ponoc; distribuzione: Lucky Red; origine: Giappone; durata: 124’; anno: 2023.