L’ottava puntata della quinta stagione de Il racconto dell’ancella, dall’evocativo titolo Patria, riserva uno dei monologhi contro la democrazia più feroci e disincantati della fiction contemporanea. Quasi tre minuti affidati al Comandante Lawrence – l’Architetto di Gilead, vero co-protagonista della serie – per umiliare nelle sue fondamenta il sogno americano, finendo per sovrapporre l’America alla democrazia stessa, e di conseguenza decretare l’ineluttabilità del suo fallimento.
Il monologo è interrotto solo tre volte dalle battute lampo della protagonista, June, che sembra sorvolare sul senso dell’intero discorso, interessata esclusivamente a capire se il comandante può dargli notizie della figlia Anna (“Anna sta bene”? “Hai notizie di Anna?” “Potrò vedere Anna”?). Vale la pena riportare qui il monologo, nelle sue parti salienti, prima di addentrarci nell’analisi:
«L’America sta morendo. È solo un’idea che è sopravvissuta alla sua utilità. Innanzitutto ascoltami: devi capire che tutto ciò a cui dai valore, tutte le cose a cui ti aggrappi, la democrazia, la libertà, la giustizia, tutte quelle stronzate definite da un gruppo di proprietari di schiavi che dicevano che gli uomini fossero tutti uguali, tutto questo è crollato sotto il peso del capitalismo tardivo e del consumismo sfrenato. Ha distrutto il nostro piccolo pianeta e ha quasi messo fine alla razza umana. E Gilead, con tutti i suoi difetti, ha risolto un problema: nascono di nuovo bambini».
Lo sceneggiatore Bruce Miller, che è riuscito nell’opera rara di rimanere fedele allo spirito del romanzo originale di Margaret Atwood – pur proseguendo di pugno proprio nella trama dalla terza stagione in poi – rende esplicita un’equazione che è al centro dei timori dell’opinione pubblica occidentale già da diversi anni. Se il pianeta Terra scomparirà insieme agli uomini che lo abitano sarà per la noncuranza della politica (democratica, capitalista e consumista) su due temi chiave: ambiente e natalità. Come spesso accade nel disegno distopico, allo spettatore è proposta la soluzione più drastica al problema più controverso, quello che chiama in causa il ruolo delle donne nella società. Ma è così che funziona la distopia in letteratura (e qui, sullo schermo): produce uno straniamento che obbliga a riflettere.
È sin dagli anni cinquanta che la letteratura fantascientifica si è emancipata dalla sua funzione originaria, non più genere letterario di intrattenimento per contribuire a creare senso comune sul tema del progresso (la fantascienza di Jules Verne, per esempio), ma genere sociale, con il preciso intento di intervenire nella sfera pubblica. Il ricordo bruciante della Seconda guerra mondiale infatti fa cambiare drasticamente lo sguardo non solo sulle conseguenze del progresso scientifico (come l’uso del nucleare), ma sui valori stessi della modernità.
La social science fiction, da quel momento e per tutti gli anni ottanta del Novecento, produce opere che trasudano il senso di inquietudine moderno, il timore sempre più fondato che non è con la scienza che si comprende l’umanità, né il senso della vita. La letteratura distopica fa poi un passo avanti, spostando nel futuro quei timori e provando a immaginarne gli esiti (si pensi a Fahrenheit 451; 1984; Arancia Meccanica; La svastica sul sole; o i più recenti Non lasciarmi; Divergent; Il Cerchio).
Quasi sempre gli scenari messi in prosa dal romanzo distopico raccontano mondi non liberi, dove gli uomini non sono uguali: alcuni dominano sugli altri, perché in possesso del potere assoluto (ottenuto con la forza o con l’inganno), e l’umanità è in preda al disegno perverso di uno o più tiranni che dominano il nuovo ordine sociale. La distopia, allora, è la morte della democrazia. La democrazia, qui, è nella sua definizione massima (Sartori 1993), un sistema fondato sui valori di libertà e uguaglianza, perciò desiderabile per i cittadini di ogni parte del mondo.
Ma cosa accade se la sua desiderabilità viene messa in discussione? Accade che per prima le si cambiano i connotati, così che pezzo per pezzo sia impossibile definire quel sistema democratico, anche nella sua definizione minima (ibidem): nessun suffragio universale maschile e femminile; né elezioni libere in presenza di più di un partito; infine (o per prima cosa) abolizione della libertà di stampa con le sue diverse e alternative fonti di informazione.
In assenza di uno o più di questi aspetti la democrazia viene meno, di certo cambia faccia, trasformandosi in qualcosa che necessita un aggettivo di accompagnamento: democrazia populista, democrazia post-rappresentativa, democrazia illiberale, democrazia radicale. Il presupposto è che la democrazia così com’è non funzioni più, che non sia la forma di governo migliore per affrontare le sfide del mondo contemporaneo con le sue interdipendenze complesse (Keohane e Nye 1989). Sfide che dagli anni Duemila si trasformano in crisi multiple: il terrorismo, la crisi economica, quella migratoria, la pandemia e da ultimo la guerra russo-ucraina alle porte dell’Europa.
Le poli-crisi, alle quali i governi occidentali hanno risposto con politiche non sempre efficaci agli occhi dei cittadini, hanno mostrato la crisi della democrazia stessa nei suoi due più consolidati binomi: democrazia capitalismo (Schumpeter 1942) e democrazia-progresso (Inglehart e Welzel 2005; Keane 2009). Così da un lato «il capitalismo di stato si è strettamente integrato nella democrazia, in parte per proteggersi dal mondo e in parte per proteggere il mondo da sé stesso» (During 2012, p. 3), dall’altro «[…] il sistema politico appare incoerente. Finalità ufficiali sono diventate radicalmente disgiunte dagli effetti reali» (ibidem, T.d.A).
Questi meccanismi – per tornare alla questione democrazia con aggettivi – hanno fatto parlare di post-democrazia o democrazia contro sé stessa (Dunn 2005; Rancière 1999; Gauchet 2007). Più di recente la letteratura si è espressa in maniera esplicita contro la democrazia, prefigurando migliori e alternativi scenari in cui il governo è affidato ai sapienti, a chi – a differenza del popolo ignorante e irrazionale – è in grado di decidere con competenza sulle complesse questioni della cosa pubblica. È l’elogio dell’epistocrazia – una delle tre trasfigurazioni della democrazia insieme al plebiscitarismo e al populismo (Urbinati 2014) – che, non a caso, ben si presta a essere tematizzato in una narrazione distopica. A pensarci, il Comandante Lawrence, l’Architetto di Gilead, non è altro che un tecnocrate.
Riferimenti bibliografici
J. Brennan, Contro la democrazia, LUISS, Roma 2018.
S. During, Against democracy. Literary Experience in the Era of Emancipations, Fordham, University Press, New York 2012.
J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 2005.
G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Segrate 1993.
N. Urbinati, Democrazia sfigurata: Il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi Editore, Milano 2014.
The Handmaid’s Tale. Ideatore: Bruce Miller; interpreti: Elisabeth Moss, Joseph Fiennes, Yvonne Strahovski, Alexis Bledel; produzione: MGM Television, Gilead Productions; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2017-in produzione.