Rileggendo, a distanza di quattro decenni, il volume curato da Rovatti e Vattimo mi colpisce che la scelta dell’aggettivo “debole” non sia in nessun senso e in nessun luogo connessa a un termine a cui esso è stato tipicamente associato nel sintagma il “sesso debole”. Il riferimento alle donne è assente, eppure, nell’operazione di indebolimento della metafisica e della ragione forte a questa correlata, che i curatori considerano il filo conduttore di tutti gli interventi del libro collettaneo, le donne, filosofe, intellettuali, attiviste, avevano avuto nei quindici anni precedenti un ruolo importante. Invece delle donne si tace, anche quando ci si aspetterebbe almeno un accenno; si cita ad esempio Deleuze e il divenir animale della filosofia, ma non il divenire donna di essa, pure tematizzato dal filosofo francese; ci si confronta, sempre nel saggio di Rovatti, con la psicoanalisi di Lacan in modo molto interessante, ma si tace dell’ordine simbolico del Padre e del fatto che il fallologocentrismo è stato l’espressione socio-politica di quell’ordine metafisico del dominio che ha escluso con un gesto preliminare le donne e la dimensione femminile. Invece il fatto che gli autori siano tutti maschi e, con un’eccezione, si occupino solo di filosofi e scrittori maschi sorprende meno, vista l’assoluta prevalenza maschile nelle facoltà di filosofia e l’assenza di corsi su filosofe e movimenti femministi che da studentessa avrei sperimentato ancora negli anni novanta.

Del resto, neppure l’opera di Simone Weil, a cui è dedicato il saggio di Alessandro Dal Lago, consente di introdurre riferimenti al femminismo, alla prospettiva di genere, a origini politiche femminili alternative al patriarcato, perché tali riferimenti nella riflessione ricostruita mancano completamente. Un’altra domanda che viene spontanea riguarda il modo in cui gli autori sono arrivati a comporre il palinsesto del Pensiero debole: ci sono stati incontri a ciò dedicati? Sarà certamente accaduto in più occasioni di incontro, magari di diverso genere (filosofico, accademico, amicale…), ma sarebbe stato bello, a tanti anni di distanza, capire com’è nata la consapevolezza che quelle convergenze teoriche in senso ampio potevano confluire in un’opera comune che intendeva avere un impatto non solo teoretico. Purtroppo, nella loro premessa (Vattimpp. 7-11) i curatori non hanno ritenuto di dover dare spazio a questi dettagli biografici.

Ogni saggio del volume è intento a compiere un serrato corpo a corpo con i propri autori che in vari casi sono gli stessi e in nessun caso sono autori italiani, pur rivendicando i curatori la specificità italiana del pensiero debole. I saggi del volume esibiscono un modo di fare filosofia che ha caratterizzato la filosofia accademica per diversi decenni; nella mia formazione universitaria, ad esempio, docenti di un’altra provenienza geografica, romani, erano ugualmente intenti a sviluppare un confronto testuale intenso e accurato con gli stessi autori e indirizzi (ad esempio Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, Benjamin, Kant, Hegel, la fenomenologia, lo strutturalismo e il post-strutturalismo) ponendo ugualmente al centro la critica della metafisica e le caratteristiche del pensiero post-metafisico che da essa prende forma. La dimensione autobiografica, il riferimento a esperienze politiche e sociali di cui tale superamento della metafisica può considerarsi il correlato erano anche lì per lo più assenti.

Tuttavia, vari elementi in IPD, ad esempio il confronto di Rovatti con i romanzi di Peter Handke o il contributo più narrativo di Comolli e, in generale, il riferimento alla dimensione narrativa in più autori, hanno evocato in me, per analogia, incontri concreti caratterizzati da un modo diverso di stare insieme, da una Stimmung, una disposizione emotiva, che incarna il pensiero debole facendone un gesto concreto. Mi è allora venuta in mente una descrizione collettiva, che forse includeva alcuni degli autori del volume IPD, in un libro di Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo (1988), che racconta come, dalla fine degli anni sessanta all’inizio degli anni settanta, all’università di Torino, il movimento studentesco avesse creato una forma di socialità nuova, in cui sfumavano i confini tra pubblico e privato e donne e uomini di diverse generazioni, studenti e docenti, condividevano momenti in cui lo stare insieme era caratterizzato da ascolto, dialogo senza sopraffazione, attenzione alle piccole cose, attività pratiche svolte collettivamente, come il cucinare.

Quella fase di grande intensità e armonia, racconta Passerini, si interrompe negli anni settanta, quando la pratica politica del movimento vira verso modalità radicali, che si traducono anche in un modo più violento di interazione nei contesti universitari, un modo che allontanerà molte donne che fonderanno vari collettivi femministi di sole donne: dai gruppi di autocoscienza come quello di Carla Lonzi, anche lei intenta a un confronto radicale con la tradizione filosofica confluito nel saggio Sputiamo su Hegel, alla comunità filosofica Diotima, ancora attiva. E nel ricercare la data di nascita della comunità veronese di filosofe mi accorgo, con sorpresa, che l’anno di fondazione riportato sul sito è lo stesso della pubblicazione del volume IPD, il 1983. Come spiega la storia della formazione della comunità, ciò che porta le fondatrici di Diotima a unirsi è la discussione della riflessione della filosofa belga Luce Irigaray, la cui opera Etica della differenza sessuale era uscito nel 1982. Anche l’opera di Irigaray, nel suo originale progetto di un’ontologia della differenza sessuale, si confronta in modo creativo con le filosofie di Nietzsche e di Heidegger, così come critica in modo radicale la psicoanalisi lacaniana da cui lei stessa proviene.

Considerati in questa prospettiva i due gruppi, quello del pensiero debole e Diotima, sembrano legati da alcune interessanti affinità filosofiche lungo percorsi autonomi e paralleli. Grazie alla pratica del partire da sé e alla centralità delle relazioni tra donne la filosofia della differenza sessuale è caratterizzata in modo molto più netto da ciò che il successivo paradigma dell’Italian Theory chiamerà estroflessione, tratto che il filosofo Roberto Esposito, che tale modello ha per primo elaborato, indicherà come un elemento costitutivo della tradizione di pensiero italiana. La questione della eventuale continuità tra i due paradigmi, pensiero debole e Italian Theory non può qui essere posta, ma è significativo che già per il pensiero debole la capacità di estroflessione, ossia la relazione del pensiero con il suo altro, la società, la politica, le istituzioni, sembra costituire un banco di prova essenziale, come è esplicitato già nella premessa del volume, sebbene poi i vari contributi mostrino un grado di estroflessione relativamente basso.

Inoltre, il saggio conclusivo di Franco Crespi, dal titolo significativo “Assenza di fondamento e progetto sociale”, che tematizza finalmente in modo esplicito la relazione tra pensiero debole e mondo sociale, si assesta su posizioni relativamente conservatrici. Ponendo una serie di questioni di natura sociologica, rispetto a una applicazione concreta degli esisti teoretici della filosofia post-metafisica, Crespi pone come quesito conclusivo: «Nel contrasto tra questa posizione [quella dell’assenza di fondamento, n.d.r.] e l’esigenza di un fondamento forte di prevedibilità sociale è possibile configurare una esperienza collettiva della fine del fondamento o la posizione debole resta fatalmente un pensiero di élite e quindi ancora una forma di illuminismo?» (ivi, p. 245). Attraverso l’articolata analisi che segue Crespi sembra piuttosto propendere per la seconda tesi, ma le ragioni sono probabilmente da individuare anche nelle vicende politiche del terrorismo contro cui sembra prendere posizione in modo implicito.

Il fatto interessante, però, ignorato da tutti gli autori del volume, è che l’Italia aveva pochi anni prima compiuto due passi decisivi che possono essere considerati a pieno titolo «un’esperienza collettiva della fine del fondamento»: si tratta dell’abolizione delle classi differenziali e della correlata inclusione dei bambini e ragazzi disabili nelle scuole normali, avvenuta nel 1977, attraverso la cosiddetta legge Falcucci, e, nel 1978, della chiusura dei manicomi ad opera di un’altra legge che porta il nome dello psichiatra che l’ha resa possibile, Franco Basaglia. Entrambe le leggi non sarebbero state possibili senza una trasformazione culturale profonda a cui la filosofia italiana nel suo processo di autocritica, autosuperamento, critica della ragione e distacco dalla metafisica ha dato un contributo rilevante. Per quanto riguarda la legge Falcucci va detto che le sue precondizioni sono da ricercare in un lungo processo di democratizzazione che, sul piano legislativo, ha alle spalle almeno due tappe fondamentali, la creazione della scuola media unica nel 1963 e la liberalizzazione degli accessi di tutte le scuole superiori all’università nel 1969.

In questo processo di trasformazione dell’istituzione scolastica fino alla legge sull’inclusione del 1977 (che è stata poi il punto di avvio per un ulteriore cammino di riforme probabilmente ancora non concluso), l’Italia è stata sola (ed è ancora un’eccezione in Europa, in particolare per quanto riguarda l’inclusione scolastica di soggetti disabili), probabilmente perché «l’esigenza di un fondamento forte di prevedibilità sociale» ha prevalso in altri sistemi politici, così come la fede in standard di razionalità considerati condizione imprescindibile per l’accesso a un percorso scolastico “normale”, caratterizzato da processi di selezione e di esclusione. In questa prospettiva il paradigma della debolezza rivendicato dalla filosofia italiana getta luce, credo, su quelle scelte legislative isolate dell’Italia, poiché, senza tener conto del processo di indebolimento della razionalità e delle sue implicazioni sociali, esse sarebbero apparse utopiche e non sarebbero probabilmente state fatte. La debolezza, riferita a quei contesti, cambia di segno e si presenta allora piuttosto come un segno di forza, di capacità trasformativa, di evasione da una serie di griglie categoriali fisse per aprirsi alla molteplicità, in un luogo fondamentale, quello dell’apprendimento, e in un momento decisivo, quello della formazione dei bambini e degli adolescenti.

L’interesse forse ancora maggiore del volume IPD considerato in questa prospettiva è che l’attuazione dell’inclusione scolastica in Italia riflette alcune delle tensioni, contraddizioni e illusioni da cui i contributi del libro sono segnati. Come docente di Teoria dei linguaggi in un’università telematica in cui le studentesse e gli studenti sono spesso insegnanti di sostegno con un diploma tecnico (e dunque senza conoscenze filosofiche pregresse) ho gradualmente imparato a considerare quello che insegno e quello su cui faccio ricerca dalla prospettiva di quello che possono utilizzare di quei contenuti nella loro attività didattica. Le ho convinte che una filosofia declinata in un certo modo sia essenziale per comprendere l’esperienza dell’inclusione (e la sua stessa possibilità) e per trovare nuovi modi di insegnare. Tuttavia, cominciando a conoscere quel mondo, ho visto che la scuola italiana, forse per controbilanciare i grandi passi compiuti sul piano sociale nello smantellamento della ragione-dominio, si è arroccata, al contrario di quanto accade in altri Paesi, assai meno inclusivi, su una modalità didattica molto tradizionale, fedele a programmi totalizzanti di matrice idealistica (e dunque tutt’altro che post-metafisici), che, di fatto, rendono l’inclusione ardua, così come la piena possibilità di partecipazione per discenti più fragili.

Una tensione analoga si ritrova nei saggi di IPD che difendono posizioni radicali, consapevoli del loro potenziale trasformativo sul piano sociale, ma lo fanno attraverso una forma di elaborazione scritta infarcita di termini in greco antico e in tedesco e di concetti la cui comprensione è presupposta e, dunque, in una modalità necessariamente elitaria. La nostalgia per la metafisica denunciata nella premessa in rapporto a momenti critici precedenti nella tradizione filosofica italiana sembra esprimersi negli autori di IPD nell’incapacità di adottare forme di scrittura più ibride e accessibili anche ai non specialisti e nella mancata discussione riguardo a ciò che un pensiero debole deve lasciar cadere della tradizione filosofica ereditata per far spazio a una molteplicità di voci ed esperienze fino a quel momento inascoltate.

Riferimenti bibliografici
L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze 1988.
G. Vattimo, P.A. Rovatti, a cura di, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983.

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