di FRANCESCO CERAOLO
Il nuovo Vangelo di Milo Rau.
Non si tratta di fare teatro ma di superarlo. È il 2019, il Covid esiste solo nelle peggiori apocalissi cinematografiche hollywoodiane. Milo Rau, regista svizzero tra i più riconosciuti del panorama internazionale, viene invitato a Matera nell’anno della capitale europea della cultura per realizzare un progetto teatrale. Gli viene data libertà pressoché totale. Matera è una città arcaica, costruita nella roccia della montagna, una sorta di Gerusalemme europea protostorica, l’ambientazione scelta da Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson per realizzare le loro riduzioni cinematografiche dei Vangeli cinematografici (Il Vangelo secondo Matteo, 1964; La passione di Cristo, 2004). Rau decide allora di realizzare un neue Evangelium negli stessi luoghi e con le stesse attrezzature dei set precedenti. “Ci sono già le buche per le croci, basta solo un click”, dice al suo attore protagonista Yvan Sagnet, attivista camerunense che combatte per i diritti dei lavoratori della terra presenti in Basilicata e che per Rau diventa una nuova figura cristologica. Chiama Enrique Irazoqui (Gesù nel Vangelo pasoliniano), Marcello Fonte (Dogman), Maia Morgenstern (Maria ne La passione di Gibson), coinvolge l’intera popolazione della città (dal sindaco ai braccianti africani che lavorano nei campi) e nell’autunno del 2019 mette in scena nelle strade e nelle piazze della città i momenti principali del ministero e della morte di Gesù.
Il battesimo di Giovanni Battista, la Via Crucis, la Crocifissione, gli apostoli con la tunica, Cristo che cammina sulle acque, Ponzio Pilato che si lava le mani, i soldati romani con le caligae di cuoio e il gladius. Fin qui, niente di nuovo. Come nei lavori precedenti, il reenactment del Vangelo di Rau risponde a leggi mimetiche rigorosissime e stanislavskiane, in cui la rappresentazione è interamente superata dalla personificazione. Se si esclude il fatto che in questo caso raddoppia anche la morfologia del set pasoliniano e gibsoniano, Il nuovo Vangelo aderisce radicalmente all’iconografia di un generico mistero pasquale di stampo medievale aperto al pubblico, tipico di un qualunque paese di una altrettanto qualunque nazione cattolica.
Dopodiché, finito l’esperimento teatrale inizia quello cinematografico. Come negli Appunti per un’Orestiade Africana (1970) di Pasolini, Rau si aggira tra le baracche dei lavoratori africani, intervista e provina gli abitanti di Matera, documenta le manifestazioni dei braccianti, le loro sommosse e gli scontri con la polizia. Litiga persino con un rappresentante sindacale che lo accusa di mostrare solo “neri”. Monta le sequenze parallelamente a quelle del Vangelo, alle prove dello “spettacolo”, a volte le mette in cortocircuito tra di loro: vestiti da apostoli i protagonisti devastano un supermercato, i soldati romani scendono da una macchina e arrestano Gesù durante l’Ultima Cena. Il tutto diventa un docu-film, presentato nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia del 2020 e andato in streaming in anteprima mondiale sul sito di NTGent (la sua personale «città teatro del futuro»).
Prima una sacra rappresentazione, poi un film. Di cosa si tratta esattamente? In definitiva, della vocazione integralmente cinematografica del teatro di Rau che prende finalmente una forma filmica (sia detto per inciso: del tutto inutile e originale in niente, ma non è questo il punto). Ciò comporta, in termini generali, che il portato politico residuale che l’estetica di Rau ancora manteneva nei suoi spettacoli teatrali precedenti (come nei recenti La Reprise e Familie) viene interamente surclassato da un’istanza documentaristica che risponde a esigenze unicamente mimetico-cinematografiche.
Il teatro è un semplice livello zero del cinema di cui lo streaming Covid (che questo progetto profeticamente anticipa) non è altro che una conferma. L’immagine non lavora sugli aspetti impersonali della performance, non costruisce cioè un nuovo ambiente mediale (come in molti interessanti esperimenti streaming pandemici, vedi Corsetti e soprattutto gli straordinari film d’opera di Martone), ma è un vero e proprio strumento di scrittura narrativa cinematografica. Il teatro non esiste, è un nulla assoluto, una prova aperta, una pura iconografia in movimento, a cui è sottratta qualsiasi possibilità di intercessione della realtà con la scena, qualsiasi sua interpolazione finzionale. Esiste solo il cinema, ingabbiato da regole e dogmi etico-estetici (basta leggere il NTGent Manifesto) e dalla sua vocazione interamente testimoniale o vagamente ideologica. Anche la dialettica tra il mito e il presente, tra il piano trascendente del testo evangelico e quello immanente della lotta politica dei braccianti non risponde ad altro che a una riconfigurazione iconografica a servizio dell’immagine, priva di qualsiasi spessore reale o riflessione performativa (si pensi anche qui allo straordinario lavoro cinematografico sul senso politico del teatro nei cortocircuiti tra Eschilo, la guerra jugoslava e i bassi napoletani in Teatro di guerra di Martone del 1998).
Con Il nuovo Vangelo quella di Rau si conferma una forma integralmente anti-politica che ha come oggetto la politica. Una forma che in passato è stata in grado di produrre risultati anche straordinari, pur nella loro tensione anti-teatrale, e che ora sembra aver interamente abdicato a ogni reale vocazione storica del linguaggio. «Cechov e Shakespeare non basteranno più. Dobbiamo trovare un nuovo linguaggio», ha scritto Rau durante il lockdown del 2020. Provocatoriamente potrebbe aver ragione, ma la strada non è certamente questa.
Il nuovo vangelo. Regia: Milo Rau; sceneggiatura: Milo Rau; musiche: Elia Rediger, Vinicio Capossela; interpreti: Enrique Irazoqui, Yvan Sagnet, Maia Morgenstern, Marcello Fonte; produzione: Fruitmarket, Langfilm, IIPM; origine: Germania, Svizzera; anno: 2021; durata: 107′.