Iniziamo col dire che la traduzione in italiano del libro di Stanley Cavell, Il mondo visto, è un piccolo evento editoriale. L’edizione originale del libro (The World Viewed) data 1971, quella aggiornata 1979. Si aspettava da tempo una edizione italiana. Merito dell’editore Cue Press, di chi ha curato e introdotto il libro secondo una prospettiva filosofica, Piergiorgio Donatelli, e di chi ne ha misurato nella postfazione il rilievo per gli studi sul cinema, Giacomo Manzoli.
Da dove nasce l’importanza del libro? Dalle domande che lo attraversano, tutte riconducibili in definitiva alla domanda ontologica, come esplicita tra l’altro il sottotitolo, Riflessioni sull’ontologia del cinema. Tale domanda ha attraversato alcune delle riflessioni teoriche più significative sul cinema. La prima delle quali, la più giustamente nota perché nata nel solco della fenomenologia merleau-pontyana nel momento storico decisivo del Secondo dopoguerra, è quella di André Bazin e di Che cos’è il cinema? (autore di cui Cavell tiene conto), la seconda è l’ontologia radicale di Gilles Deleuze, comparsa negli anni ottanta con L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, questa volta nel solco della filosofia bergsoniana (in primis di Materia e memoria).
Se per Bazin l’immagine cinematografica è rivelazione della realtà singolare delle cose, per Deleuze l’immagine è la realtà, l’identità dell’immagine e della cosa in un piano di immanenza, prima dell’intervento selettivo della percezione propriamente umana.
Per Stanley Cavell la questione è diversa. Anche se condivide con Bazin l’idea della base fotografica del cinema, il problema per il filosofo americano riguarda il mondo, cioè la trasformazione della realtà in qualcosa di sensato, in una forma di vita. Ma non c’è mondo senza azione, e dunque senza racconto. E questo non può prescindere dalle strutture mitiche che lo informano, dalle generalizzazioni dei “tipi” che lo animano (centrali al cinema perché costruiti anche sugli attori), che vanno ben oltre la singolarità dei personaggi e la loro individualizzazione.
Se per il critico francese i film capaci di «intercedere» per affermare il realismo del cinema sono quelli del neorealismo italiano, perché animati da pura deambulazione a-narrativa e dunque più capaci di rivelare gli incontri imprevedibili e singolari con le cose, per Cavell è invece il cinema classico americano a svolgere tale ruolo, con le sue complesse codificazioni narrative e di genere. Per Cavell il problema è dunque il mondo, il vero tema unificante di un libro che a volte sembra smarrirsi enigmaticamente in più direzioni.
La questione di come il cinema sia capace allo stesso tempo di raggiungere e nascondere il mondo è il cuore del libro:
Il mondo di un film viene proiettato. Lo schermo non è un supporto, non è come una tela; in quel modo non ha nulla da sostenere. […] Che cosa mostra lo schermo luminoso? Lo schermo mi nasconde dal mondo che contiene – mi rende infatti invisibile. E mi nasconde il mondo – ovvero mi nasconde la sua esistenza (Cavell 2023, p. 59).
Il mondo di un film è tale, e dunque è lì e ci riguarda, perché mette in gioco quella che con Sartre potremmo chiamare una doppia «nullificazione»: della sua presenza ora («il mondo proiettato non esiste “ora”», ibidem) e della presenza dello spettatore.
È questa luminosità segnata da un doppio nascondimento lo specifico del cinema e del suo rapporto con la realtà. Perché il cinema in «quanto proiezione automatica del mondo» (ivi, p. 169) non necessita di molto altro per attestare la presenza del mondo stesso. L’automatismo nasconde il tratto soggettivo dell’arte, recuperabile solo attraverso l’esplicito lavoro sulle forme, che Cavell individua nel carattere modernista di un certo cinema, quello che emerge quando la codificazione delle forme della tradizione entra in crisi (con quello che con il lessico della teoria francese, ampiamente diffuso e condiviso, potremmo chiamare il “cinema moderno”).
Restando ai dispositivi espressivi, la differenza dell’immagine cine-fotografica da quella pittorica non può essere misurata semplicemente a partire dalla maggiore capacità nella restituzione realistica del mondo da parte della prima. L’immagine cine-fotografica determina un modo radicalmente nuovo di attestare il rapporto tra uomo e mondo.
L’ascendente romantico di tale idea, che lo stesso Cavell tira in ballo, è chiaro. In pittura il soggetto tocca il mondo ritirandosi creativamente da esso. Nella fotografia e nel cinema all’opposto, il mondo accede ad immagine automaticamente, espellendo la necessità della soggettività autoriale: «[…] Per mantenere il nostro essere presenti, la pittura accetta il ritiro dal mondo. La fotografia mantiene l’essere presente del mondo accettando che noi ne siamo assenti» (ivi, p. 55).
L’automatismo diventa la differenza decisiva. È la genesi specifica dell’immagine cinematografica a garantire l’accesso del mondo ad immagine, con l’espulsione di ogni soggettività. Lo schermo diventa allora una sorta di «fazzoletto magico» (l’immagine è del Morin de Il cinema o l’uomo immaginario, libro che Cavell non considera, anche quando si tratta di pensare la specifica origine magico-religiosa del cinema), in cui le cose sono presenti ed assenti allo stesso tempo, e sono anche capaci di metamorfizzarsi, di mutare rapidamente.
Il fatto che un automatismo esista è una cosa, il fatto che abbia senso un’altra. Se il cinema è un medium (cioè una possibilità) non significa che sia una condizione a priori delle opere particolari, di questo o quel film. Esattamente l’opposto. L’essere medium del cinema è un effetto dei film e delle forme determinate e reali che li definiscono (in termini bergsoniani diremmo che è il reale a generare il possibile):
I primi film di successo – le prime pellicole cinematografiche accettate come film – non erano applicazioni di un medium definito da possibilità date, ma erano la creazione di un medium per il fatto che questi film davano significato a delle possibilità specifiche. Solo l’arte stessa può scoprire le sue possibilità, e la scoperta di una nuova possibilità è la scoperta di un nuovo medium (ivi, p. 72).
Queste parole di Cavell permettono oggi di portare alla luce uno dei grandi equivoci delle teorie dei media: pensarli come meri dispositivi (cioè possibilità) prescindendo dalla effettività delle forme date significa condannarsi ad un discorso sterile. Un medium è sempre generato da forme specifiche ed effettive, e dal loro uso. Il cinematografico, per dirla con Pasolini, è generato dal filmico, al di fuori del quale semplicemente non esisterebbe o la cui esistenza – come quella di Dio – andrebbe dimostrata attraverso categorie della ragione o atti di fede.
Non esiste contrapposizione tra arte e medium. Esiste il «medium di un’arte» (ivi, p.119), cioè la trasformazione di una data e specifica forma espressiva in una possibilità di generare nuovi contenuti, attraverso per esempio “tipizzazioni” e “codificazioni”, come è stato per Hollywood. E una stessa arte può generare più media, più possibilità, per cui il compito dell’artista moderno non è «la creazione di un nuovo esempio della sua arte ma di un nuovo medium all’interno di essa» (ivi, p. 152).
Questo porta ad un corollario importante: «Si può sostenere che gli unici strumenti suscettibili di fornire dati per una teoria del cinema siano le procedure della critica» (ivi, p. 45). È solo partendo dai film, dalla «critica umanistica che si occupa di film interi» (ibidem), che possiamo immaginare di creare concetti utili per una teoria del cinema, per pensare cosa sia un’arte, a che punto si trovi, e come possa generare nuovi media, e anche portare ad una migliore comprensione di se stessi e del mondo da parte degli spettatori.
E non è un caso che lo stesso Cavell, sia nel volume dedicato alla commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Alla ricerca della felicità, sia nel libro sul melodramma, Contesting Tears, sia in uno dei suoi testi più belli, sullo scetticismo in Shakespeare, Il ripudio del sapere, ma anche in Cities of Words, dove mette in dialogo un film e un filosofo o scrittore, costruisca l’ossatura dei suoi libri su «conversazioni critiche» (come le chiama in Alla ricerca della felicità) con i film.
E solo da queste conversazioni critiche che possono emergere non solo elementi di teoria, ma anche la comprensione di quanto di buono i film hanno, anche quelli popolari, con la loro capacità di mettere lo spettatore in condizione di comprendere la sua propria esperienza e di modificarla. Perché la critica non opera su un piano di astrazione, ma a partire da quell’“esperienza immediata” e primaria – di cui parla Robert Warshow – che è quella dello spettatore: «The actual, immediate experience of seeing and responding to the movies as most of us see them and respond to them» (Warshow 2001, p. XL).
L’opera di Stanley Cavell rimane uno dei grandi esempi di quella che mi è capitata di chiamare la «teoria impura» (De Gaetano 2017, pp. 9 sgg), l’unica teoria che resta ancora viva, perché nata a ridosso della singolarità degli oggetti, del carattere determinato della forma, dell’esperienza concreta dello spettatore.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
S. Cavell, Contesting Tears, The University of Chicago Press, Chicago 1996.
Id., Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nelle tragedie di Shakespeare, Einaudi, Torino 2004.
Id., Cities of Words. Pedagogical Letters on a Register of the Moral Life, Harvard University Press, Cambridge 2005.
Id., Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Cue Press, Imola 2022.
R. De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2017.
R. Warshow, The Immediate Experience, Harvard University Press, Cambridge 2001.
Stanley Cavell, Il mondo visto. Riflessioni sull’ontologia del cinema, a cura di P. Donatelli, postfazione di G. Manzoli, Cue Press, Imola 2023.