Due particolari sequenze di Il mio posto è qui appaiono connesse tra loro in modo antitetico: la prima sequenza del film, in cui il buio della notte, pittorescamente illuminato dalle lucciole, protegge l’incontro amoroso di due innamorati, accostando l’atto fisico alla vegetazione naturale; e una seconda, molto più avanti nella narrazione che mostra i festeggiamenti serali del giovedì grasso di carnevale, portando ad un rovesciarsi giocoso dell’equilibrio sociale. L’unione nelle immagini è dettata dalla protagonista Marta (Ludovica Martino), che sveste i suoi panni di ragazza madre nella Calabria del 1946, per indossare, nello spazio di una sola notte, quelli di un uomo. Baffi, giacca e pantaloni lunghi descrivono un modus vivendi discordante rispetto a quello che veniva imposto alle donne di quel tempo.
Daniela Porto (anche autrice dell’omonimo romanzo da cui è tratto il film) e Cristiano Bortone mettono in scena una Calabria che cerca di smascherare – mascherandolo – il dominio di una norma socialmente imposta: in una comunità meridionale frammentata che, misurandosi con il cambiamento storico e politico all’alba del referendum istituzionale, affronta la fine del fascismo e della seconda guerra mondiale, Marta si staglia dal nucleo comunitario come corpo tacciato di vergogna, mostrando l’impossibilità di qualunque sentimento di collettività.
Il borgo calabrese che fa da sfondo alla narrazione è registicamente incorniciato per risultare quasi congelato nel tempo: lo spazio che ospita il mercato, la chiesa in cui avvengono le maggiori interazioni tra i paesani, la piazzetta con il bar storico che vi si affaccia. I vari cambi di location, che si snodano tra gli esterni in Calabria e gli interni in Puglia, sono sintomo di un mancato dialogo tra la dimensione sociale e quella individuale (De Gaetano, 2015) di Marta. Al centro della narrazione è il rapporto-specchio che si instaura tra la ragazza ed il sagrestano della chiesa, Lorenzo (Marco Leonardi). I due personaggi sono corpi che si travestono, facendo coincidere due tipi di biasimo sociale: Lorenzo è un omosessuale con un passato sulla bocca di tutti, Marta si è concessa al suo innamorato fuori dal matrimonio prima che lui partisse per la guerra. La comune volontà di evasione suggella l’amicizia dei due protagonisti e permette loro di abbracciare il cambiamento culturale come una lotta rivendicatoria.
L’atto scatenante è la proposta di matrimonio che giunge a Marta, portandole la possibilità di ripulirsi dal peccato di cui si è macchiata. In mancanza di un’idea comunitaria, crearsi una famiglia con al vertice un uomo è l’unico mezzo che le donne hanno per costruirsi un’identità sociale a cui appartenere. Il vestito da sposa che la ragazza indosserà, riadattato da quello della madre, rappresenta l’habitus al quale Marta deve adattarsi, vestendo così il dominio della cultura patriarcale.
In questo senso il viaggio che Marta compie con Lorenzo si oppone al modello di norma istituita, costituendo un cammino in contrasto rispetto alle strade conosciute (e raccontate) dell’entroterra calabrese. L’uomo, che nell’affrontare il suo passato incarnerà una sorta di mentore ante-litteram, accompagna la ragazza nella comunità queer degli anni ’40, conducendola nel cuore notturno di festini nascosti. L’ambiente in cui ferve la libertà del corpo fornirà l’accesso all’oggetto\simbolo della lotta femminile verso il riscatto sociale, politico e culturale: una macchina da scrivere di marca Olivetti per accedere ai corsi di dattilografa svolti nella sede del PCI.
La scena che simboleggia l’acquisizione di un pensiero critico da parte di Marta è retta dal trionfo della parola scritta e dal raggiungimento di un ritmo di scrittura abbastanza veloce per divenire dattilografa: la macchina da scrivere è uno strumento quanto mai maneggevole, il cui utilizzo può condurre all’affermarsi della propria individualità. Se il colore rosso, rappresentante della scena politica, entra bruscamente in scena invadendo il campo visivo, il ritmo sonoro delle dita che battono a macchina, invade il campo acustico, provocando una rottura nella chiusa e monotona quotidianità del paese.
Nel cinema italiano contemporaneo la rappresentazione storica diventa mezzo d’appropriazione di un pensiero consapevole a cui fare riferimento per abitare, vestiti ora di una propria identità sociale, una terra a cui fare ritorno o in cui reclamare il proprio spazio.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. 2, Mimesis Edizioni, Milano 2015.
Il mio posto è qui. Regia: Daniela Porto, Cristiano Portone; sceneggiatura: Daniela Porto, Cristiano Portone; fotografia: Emilio Costa; musiche: Santi Pulvirenti; interpreti: Ludovica Martino, Marco Leonardi, Anna Maria De Luca; produzione: Orisa Produzioni, Goldkind Filmproduktion; distribuzione: Adler Entertainment; origine: Italia; durata: 110’; anno: 2024.