«A me interessa rivelare l’invisibile, ma l’invisibile non si filma. Dunque bisogna cominciare dal visibile…» (Scandola 2007). Con queste parole Bruno Dumont cercava di illustrare i punti fermi della sua estetica e in particolare l’ambiguità di uno sguardo al contempo attratto dal reale – per esempio le lande barbariche delle Fiandre – e teso verso l’astratto, ovvero verso la rappresentazione di qualcosa di infilmabile come il paesaggio interiore dei suoi personaggi.

Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc (2017), variazione musical su un mito amatissimo dal cinema, conferma come la dialettica tra visibile e invisibile costituisca ancora una chiave utilissima per penetrare l’immaginario di quello che indubbiamente è uno dei più visionari tra i cineasti europei contemporanei. Frettolosamente etichettato come il “nuovo Bresson” in virtù di un rigore quasi dogmatico nell’adozione di alcune soluzioni compositive ­– dalla registrazione del suono in presa diretta alla predilezione per gli attori non professionisti –, negli ultimi tre anni Bruno Dumont sembra essersi divertito a depistare gli sforzi ermeneutici della critica, abbandonando i toni (apparentemente) cupi della tragedia (L’umanità, 1999) per vestire quelli (apparentemente) comici della farsa (P’Tit Quinquin,  2014 e Ma Loute, 2016).

L’ultima fatica, prodotta da ARTE e distribuita nelle sale francesi in una versione leggermente differente nel montaggio rispetto a quella trasmessa sul piccolo schermo, tenta di coniugare forme di vita già viste con una forma di rappresentazione ancora una volta sorprendente, finalizzata a scongiurare ogni possibile caduta nel manierismo. Come L’età inquieta (1997) e Hadewijch (2009), infatti, Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc è un piccolo racconto di formazione dove l’impressione di realtà, garantita dall’opacità dei corpi attoriali e dalla presenza sonora di una natura tanto vera quanto indifferente, è continuamente minata dal rifiuto della verosimiglianza.

«Freddy sul motorino ­– diceva Dumont in merito a L’età inquieta ­– ha l’aria di essere vero, ma è completamente falso» (Scandola 2007). Falso perché, al pari di quella di Godard, l’immagine di Dumont «è solo un momento di un fatto, non tutto»: pertanto la porzione di reale contenuta all’interno del quadro rinvia non solo a un prima e a un dopo il «momento», ma anche a un visibile che deborda i limiti dell’inquadratura e vive al di fuori di essa. Allo stesso modo, la pastorella che cammina sul terrain vague di una Domrémy “ricostruita” nel Nord-Pas-de-Calais – teatro di quasi tutto questo cinema – è al contempo il corpo (vero) di Lise Leplat Prudhomme, otto anni e nessuna formazione attoriale, e quello (finto) di una Giovanna d’Arco inedita, di ben cinque anni più giovane rispetto al modello letterario creato da Charles Péguy (Le mystère de la Charité de Jeanne d’Arc, 1897).

Da Méliès a Rivette, da Dreyer a Besson, numerosissimi sono i cineasti che hanno cercato di dare un volto a un personaggio che di volto è privo e che forse anche per questo è sempre riuscito a sedurre sia gli animi reazionari (da Jean Chapelain al Front National) che quelli rivoluzionari (da Anatole France alle suffragettes). In questa lunga tradizione cinematografica Dumont si inserisce quasi per caso, alla ricerca –  per la prima volta ­– di un testo dotato delle risonanze musicali necessarie a realizzare un progetto tanto nuovo quanto ambizioso: una comédie musicale en plein air.

Composta di versetti strutturati secondo una metrica che riproduce, in alcune sezioni, la regolarità dell’alessandrino, la prosa drammaturgica di Péguy racchiude, in nuce, i due orizzonti della ricerca del regista di Bailleul, ovvero il realismo e il lirismo. Scritta per essere non letta ma declamata, la parola è infatti per Péguy al contempo lògos e phoné, meditazione teologica sulla souffrance éternelle e lamento. E ciò che assicura la trasfigurazione mistica del verbo è proprio la struttura litanica delle preghiere che la piccola Jeannette, insoddisfatta delle risposte fornitele da Mme Gervaise – coprotagonista del Mystère assieme all’amica Hauviette – rivolge a Dio. Un Dio filmato, in controcampo, come un bagliore di luce tra le nuvole che tanto ricorda certi cieli di Godard (Je vous salue, Marie, 1984).

Tutti i numeri musicali del film, coreografati da Philippe Decouflé, evidenziano il lento scivolare del senso dal concreto (la parola) all’astratto (la musica) o meglio a ciò che, come ha osservato Dumont, sfugge alla comprensione razionale del lettore: «Ci sono dei passaggi oscuri in Péguy, frasi che non capisco: ho deciso che tutto quello che non avrei capito lo avrei tradotto in canto». Proprio come nel musical classico, dunque, la musica – diffusa non nell’ambiente ma negli auricolari delle attrici – prende a fasi alterne il sopravvento sulla parola, ma l’obiettivo non è quello di offrire un universo alternativo al reale. Al contrario: pur espressa con parole dotate di un’indubbia fascinazione incantatoria, l’inquietudine di Jeannette non trova pace né nel canto né nella danza.

Come ci confessò nell’intervista di cui sopra, Dumont ha sempre amato «filmare il Male» e stimolare nello spettatore una sorta di processo catartico, invogliandolo a “completare” il lavoro che gli attori, diretti come masse prive di spessore psicologico, fanno sui rispettivi personaggi. Il Male che tormenta Jeannette è, come quello evocato in Flandres (2006), conseguenza di una volontà di potenza. La carestia avanza e la pastorella attende un cenno: «Oh mon Dieu, si on voyait seulement le commencement de votre règne!». Ma Dio non risponde e a poco serve il conforto di tre santi – tra cui l’Arcangelo Michele – che Dumont si diverte a far levitare sopra un ruscello: mentre Jeannette lamenta il fatto di essere stata lasciata sola, questi imitano con la mano sinistra il celebre gesto (le dita a forbice sugli occhi) eseguito da John Travolta e Uma Thurman nel celebre twist di Pulp Fiction (1994).

L’effetto è tanto surreale quanto straniante. Mentre invoca l’invio di una santa in grado di alleviare le sofferenze del suo popolo, Jeannette ruota il busto e solleva le braccia come in una sessione ginnica di body tonic; è evidente come a Dumont interessi filmare non il divino e neppure il terreno, ma il confine tra il tragico e il comico, l’intervallo tra il segno e il senso, la distanza tra la figura umana e l’ambiente. Fatta eccezione per alcuni primi piani o particolari, come i piedi o le mani della protagonista, le inquadrature predilette per i numeri musicali sono i campi medi e lunghi, composti unicamente di terra, erba e cielo. Nel musical classico, solitamente, la coreografia è funzionale all’esaltazione visiva dell’impianto scenografico, che lo spettatore ha il tempo di ammirare durante i numeri di danza. Qui, però, non c’è nulla da vedere, o meglio nulla che non faccia parte di quel reale da cui lo sguardo di Dumont cerca, oggi come ieri, di farsi sorprendere. Il vuoto dell’orizzonte, musicato da elementi sonori imprevedibili ­–  e dunque veri ­– come il vento o i belati delle pecore, sembra così vanificare la dispersione di energia delle interpreti, divertenti soprattutto quando imitano i codici scenici dell’heavy metal, un genere familiare all’autore delle musiche (Igorrr) ma non esattamente consono al soggetto del racconto: se Jeannette disegna con le dita le corna di Lucifero, le due ragazze che “recitano” il ruolo di Mme Gervaise liberano i capelli dal velo e scuotono il capo dal basso verso l’alto come trascinate da un raptus lisergico.

«Il senso del grottesco – ha scritto Geoffrey Harpham – nasce con la percezione che qualcosa è illegittimamente in qualcosa d’altro, che le cose che andrebbero separate sono tenute insieme». Nel tentativo di decostruire i codici del musical, dunque, Dumont prosegue sulla via del grottesco intrapresa con P’Tit Quinquin e tiene insieme terra e cielo, Péguy e le pecore, la riflessione sul Male e la rappresentazione della Grazia. Una Grazia che ha i movimenti scomposti, la voce stonata e soprattutto il volto di Lise Leplat Prudhomme, nuovo e liscio come quello dei bambini di Rossellini o di Truffaut, anch’essi invitati a non nascondere il loro dispositivo e dunque a esibire tutta la distanza che li separa dai rispettivi personaggi. Proprio in questo intervallo si nasconde quel reale che l’occhio del regista cerca di rubare e di non alterare, in modo tale da conservarne tutto il carattere ottuso, primitivo e barbarico.

«Bisogna cominciare dal visibile», si diceva all’inizio. Pedinando la sua interprete lungo i prati deserti e catturandone tanto le incertezze quanto le imprecisioni tecniche, Dumont non solo filma un commencement («Mi piace molto vedere le persone che cominciano», ripete spesso), ma riesce anche a realizzare quello che, prima di lui, forse solo Dreyer (La passione di Giovanna d’Arco, 1928) e Rossellini (Giovanna d’Arco al rogo, 1954) hanno tentato: l’invenzione di un volto.

Riferimenti bibliografici
M. Chion, La comédie musicale, Cahiers du cinéma, Paris 2002.
J.-L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1982.
G. Harpham, On the Grotesque: Strategies of Contradiction in Art and Literature, Princeton University Press, Princeton 1982.
T. Horeck, Tina Kendall, a cura di, The New Extremism in French Cinema: From France to Europe, Edinburgh University Press, Edinburgh 2013.
A. Scandola, Un’estetica della rivelazione. Conversazione con Bruno Dumont, in P. Romano, a cura di, Verona Film Festival– Schermi d’Amore. Catalogo generale, Marsilio, Venezia 2007, pp. 128 – 140.

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