È che non lo vediamo. Non lo vediamo proprio. Il mondo è invisibile. Anche se in realtà non facciamo altro che vederlo, quello che non vediamo è il mondo nella sua stupefacente meraviglia; vediamo piuttosto questo oggetto, questa persona, questa particolare entità. Ma proprio non riusciamo a vedere il mondo, la semplicità del mondo, il suo abbacinante splendore. E se crediamo di vedere il mondo, come quando osserviamo ammirati la strabiliante immagine di qualche lontana galassia, ebbene in questo caso non vediamo il mondo, vediamo piuttosto una intera sconfinata galassia come se non fosse altro che un “singolo” oggetto, per quanto di enormi dimensioni. Non vediamo il mondo, appunto, vediamo questo o quest’altro. È perché non vediamo nel mondo nient’altro che questo oggetto, anche se immenso come una galassia, oppure qualunque altro oggetto che abbiamo perso la capacità di vedere il mondo; in effetti l’umano è proprio questa stessa incapacità, l’Homo sapiens vede le cose del mondo, ma non riesce a sopportare la visione del mondo.
In fondo la parola “antropocene”, l’epoca geologica marchiata dall’azione umana, non significa altro, in fondo, che questa radicale incapacità ad esporsi alla visione della terribile – perché la visione del mondo non può non atterrire – meraviglia del mondo. Eppure ci sono state, e continuano ad esserci, persone che hanno di queste visioni. In effetti, come scrive la monaca benedettina, mistica e teologa (e molto altro) Hildegard von Bingen (1098–1179) nel “Prologo” del Libro delle opere divine: «Quando avevo sessantacinque anni, ebbi una visione così misteriosa e possente che venni presa tutta da un tremore e poi, per la fragilità del mio corpo, mi ammalai. Questa è dunque quella visione: ho avuto bisogno di sette anni per scriverla e ancora non ho finito» (Liber divinorum operum simplicis hominis, scritto fra il 1163 e il 1174; Mimesis 2025, edizione inspiegabilmente priva di un adeguato apparato critico, p. 8).
È un primo punto e decisivo da ribadire: la visione di Ildegarda è una visione del mondo – e quindi una visione di Dio – in senso oggettivo, è il mondo che appare in tutta la sua terribile potenza. Al contrario, siamo così disabituati anche solo a pensare che una visione del genere sia possibile che quando qualcuno, come appunto Ildegarda, racconta di avere avuto una visione del genere riusciamo solo a dire che la sua non può essere stata che una allucinazione, cioè una visione soltanto soggettiva; ma una visione del genere non è propriamente una visione. E invece no, Ildegarda racconta proprio di una visione del mondo, una visione che per la sua insopportabile potenza la fece infatti ammalare: come scrive ancora Ildegarda, e che non riusciamo a prendere sul serio le sue parole mostra la miseria del nostro tempo, «una voce dal cielo si rivolse a me con queste parole: queste cose che vedi con gli occhi interiori e che ascolti con le orecchie interiori dell’anima affidale alla solidità della scrittura, per il bene degli uomini. […] Scrivi dunque queste cose non secondo il tuo cuore, ma come mia testimone, di me che sono vita senza inizio e fine; poiché non sono cose che tu hai immaginato né cose che in passato ha pensato un altro essere umano, ma sono state da me predisposte prima dell’inizio del mondo» (ivi, pp. 8-9).
Che succede se prendiamo sul serio queste parole? Per la sensibilità contemporanea dire di una donna che è una mistica significa dire che quello che dice non è da prendere sul serio, in particolare perché – come sosteneva il logico e filosofo Rudolf Carnap in un celebre saggio del 1932, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio – la parola “Dio” è «priva di significato» in senso scientifico. Al contrario una parola dotata di significato in senso scientifico sarebbe una parola che può essere ricondotta a quelle che lo stesso Carnap chiama «proposizioni protocollari», cioè descrizioni di qualcosa di effettivamente esistente – l’esempio di Carnap è particolarmente interessante, quello della parola «artropodo» il cui significato viene ridotto alla proposizione «la cosa x è un artropodo» (ivi, p. 507). Di “Dio” non possiamo parlare, degli invertebrati privi di ossa sì. Evidentemente per Carnap (e tutti quelli che la pensano come lui, un pensiero che sembra coincidere con il senso comune del nostro tempo) una «proposizione elementare» – cioè in diretta connessione con la realtà – come «x è un Dio» non solo non esiste, ma non può esistere; pertanto, prosegue Carnap, «le proposizioni cosiddette metafisiche, contenenti tali parole» – come appunto la parola “Dio” – «non hanno nessun senso, non vogliono dire nulla, e sono solamente pseudoproposizioni» (ivi, p. 513).
Ma perché, propriamente, quando nelle sue visioni Ildegarda evoca “Dio” le sue parole non avrebbero «nessun senso»? Nella prima visione, scrive Ildegarda, «vidi, come al centro del cielo australe, una bella e mirabile immagine nel mistero di Dio (in mysterio Dei imaginem), simile a una figura umana, il cui volto era di tanta bellezza e chiarore, che avrei potuto fissare la luce del sole più facilmente di essa; un largo cerchio del colore dell’oro ne circondava la testa» (ivi, p. 11). In questo caso non si tratta di stabilire che cosa ha effettivamente visto interioribus oculis Ildegarda; qui non si tratta di provare scientificamente se quello che questa donna ha visto esiste davvero. Il punto in questione è piuttosto perché presumiamo che quello che la mistica Ildegarda racconta di aver visto debba essere provato “scientificamente”.
Perché riconosciamo tutta questa autorità al discorso scientifico? Qui evidentemente non si tratta di sminuire il valore della scienza, si tratta piuttosto di non sminuire quello di Ildegarda, e con lei la voce della mistica. Evidentemente la «verità» delle sue visioni non è dello stesso tipo di un’asserzione come “x è un artropodo”, ma non per questo le sue parole «non hanno nessun senso, non vogliono dire nulla». Le visioni di Ildegarda – per questo è così straniante la lettura del Libro delle opere divine – mettono in questione l’idea che quella di “Dio” sia, quando c’è, una semplice “credenza”, ossia qualcosa di soggettivo (e quindi di non scientifico, direbbe Carnap). In effetti è curioso che si parli della fede in Dio come di qualcosa che ha a che fare appunto con la “credenza” un po’ come c’è chi crede che la terra è piatta o che l’omeopatia sia efficace.
Ildegarda non crede in Dio, e non ci crede perché lo vede; si crede perché non si vede, o perché si dispera di vedere. È questo che, per le nostre orecchie che sono carnapiane anche senza saperlo, rende così scandaloso quello che scrive, perché per lei quella di Dio è una presenza reale, e infatti è una presenza che vede. È inimmaginabile un modo di stare a mondo in cui Dio si vede, e si vede nel mondo, così, semplicemente, naturalmente: «Come infatti, con gli occhi del corpo, l’uomo vede le creature ovunque siano, così nella fede può vedere Dio dovunque (in fide Dominum ubique inspicit) e lo comprende attraverso le creature, quando si accorge che di tutte è il creatore» (ivi, p. 45).

«Nelle creature», cioè nel mondo, l’umano può «vedere Dio». È questa visione che oggi manca, e nel mondo – in quel poco del mondo che la nostra impaurita immaginazione ci permette di vedere – vediamo solo galassie e artropodi, ma non riusciamo più a vedere Dio. Per questo, viene da pensare, il nostro è il tempo dell’antropocene, perché nelle cose del mondo vediamo solo le cose, e nient’altro. È evidente che le visioni di Ildegarda sono attuali, per noi carnapiani, non per il contenuto determinato che vedono, perché quel contenuto ormai non possiamo più vederlo; quello che conta, di queste straordinarie visioni (nel libro se ne possono ammirare alcune, e molte di più se ne possono vedere, ad esempio, in quello di Sara Salvadori, Hildegard von Bingen. Viaggio nelle immagini; Skira 2019) è il fatto strabiliante che sono visioni, non pensieri e sogni, e tantomeno illusioni.
Ildegarda vede, e racconta quello che ha visto. In questo senso in fondo è molto più “scientifica” dello stesso Carnap perché le sue sono «proposizioni elementari» che descrivono esattamente quello che ha visto. Solo che, diversamente da Carnap, non limita la “scientificità” alla visione degli artropodi. C’è allora la scienza degli invertebrati, ma c’è anche la scienza di Dio, una scienza tutta sensibile e corporea, impastata di meraviglia e gratitudine, di colori e poesia. Quelle di Ildegarda sono visioni allo stesso tempo affatto interiori e oggettive, e quindi indubitabili. Per questo l’affetto prodotto da questa visione è, infine, una «immensa gioia (magnum gaudium)» (ivi, p. 326). Vedere il mondo, vedere la gioia del mondo, è questo che ha visto Ildegarda.

Riferimenti bibliografici
R. Carnap, “Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino 1969.
S. Salvadori, Hildegard von Bingen. Viaggio nelle immagini, Skira, Milano 2019.
Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, Mimesis, Milano 2025.