Il cinema di Hamaguchi Ryūsuke è pensato per essere ricostruito come un rebus. Non di certo per il ricorso a contorsioni narrative volte a intaccarne la leggibilità, ma per via del suo invito a interpretare le parti che sanciscono la natura dis-continua del reale, attraverso l’osservazione attenta e la decrittazione di segni e forme disseminati nell’opera. Fin dagli esordi il suo cinema si è sempre posto il problema della distanza (e dei modi più adatti a ridurla o, per converso, ad accrescerla). Da ammiratore e discepolo di Cassavetes, Hamaguchi si è confrontato a più riprese con l’improvvisazione attoriale – e quindi con la distanza che intercorre tra il personaggio e l’attore che lo incarna –, attorno alla quale sono incentrati Intimacies (2012) e Touching the Skin of Eeriness (2013) nonché il lungometraggio fluviale Happy Hour (2015), accolto entusiasticamente al festival di Locarno. E, in quanto rimodulazione costante influenzata dai capricci della contingenza, l’improvvisazione per il cineasta giapponese ha innanzitutto costituito un problema di natura mimetica.

Nel suo penultimo film, Il gioco del destino e della fantasia (2021), che si è aggiudicato l’Orso d’argento alla Berlinale, permane la cornice episodica dei lungometraggi precedenti che qui indica non solo la presenza di tre storie, ma anche la polifonia e la differenziazione dei punti di vista (la donna che abbandona e la donna abbandonata, l’uomo fragile e vanesio e quello umbratile e risoluto, il raggiratore e la vittima, gli outsider e gli integrati), come se si trattasse di tre variazioni attorno al medesimo tema. Permane altresì l’improvvisazione che continua a manifestarsi sottotraccia, in particolare nei passaggi di tenore quasi metacinematografico, momenti in cui prendere le distanze è l’unico modo per avvicinarsi all’essenza delle cose e riabitare il passato cogliendo il senso delle “intermittenze del cuore”.

Si va così dal set fotografico su cui si apre il primo episodio all’espediente della registrazione del secondo, fino al recitativo del terzo, in cui le due donne, come dei personaggi rivettiani, «non hanno ancora raggiunto atteggiamenti teatrali corrispondenti ai ruoli» (Deleuze 2017, p. 226). Essi assumono invece degli «atteggiamenti parateatrali» (ibidem) volti a saggiare la distanza mimetica tra il personaggio e il corpo dell’attore nonché tra il personaggio e le sue aspirazioni contrastanti che tendono a creare una biforcazione del “sentimento” (come in Asako I & II, 2018) attraverso cui il reale stesso, mediante la sua alterazione e rimodulazione, può essere espresso soltanto a patto di inventare una figura per un s/oggetto che, non conoscendo a pieno le profondità del suo desiderio, apparirebbe altrimenti “sfigurato”, opaco nella sua mutezza. È possibile allora stabilire l’identità delle donne al centro del terzo episodio? Chi altro sono all’infuori della persona che credono di aver incontrato? E, dunque, che ruolo stanno interpretando a favore di macchina se non quello capace di rivelare «un gestus che non è reale né immaginario, né quotidiano né cerimoniale, ma al confine tra i due» (ibidem)?

Fin dalle premesse pseudo-fantascientifiche di un virus informatico che costringe le persone a tornare a forme di interazione più fisiche, è proprio questo episodio a fare più affidamento sul corpo per raggiungere «un senso […] visionario o allucinatorio» (ibidem). Le scale mobili, su cui si apre e si chiude l’episodio, come un nastro di Möbius, generano una de-formazione continua e dunque un’equivalenza tale che le protagoniste possono al contempo essere se stesse e altro da sé. Le protagoniste, più che burattini privi di interiorità, sono persone che assumono spessore mediante le loro azioni che si dispiegano all’interno di situazioni reversibili, personaggi realistici calati entro strutture irrealistiche tramite cui è possibile osservare la realtà in maniera differente, po(i)eticamente. La simulazione assume un valore “terapeutico” a patto che sia incarnata, analogica – intendendo il termine nelle due accezioni di non-digitale (poiché il virus informatico tiene ancora sotto scacco il world wide web) e di relazione, basata cioè su elementi che sono retti dalla medesima logica formale (l’amore e l’empatia).

Come recita il titolo del primo dei tre episodi che compongono il film, Hamaguchi ricorre alla «magia (o a qualcosa di meno rassicurante)»; una magia che contravviene alla regola base dell’illusionismo non avendo paura di mostrare i trucchi del mestiere. L’ésprit de géometrie si manifesta nel taglio fortemente analitico della drammaturgia, del côté verbale, nella razionalità strutturale necessaria per reggere il peso di un film che si fonda sulle traiettorie del caso che, per quanto imprevedibile, rammenta Rohmer, ha comunque le sue abitudini. Esso non soffoca tuttavia l’ésprit de finesse nel quale anzi si foraggiano le inquadrature, composizioni che ricorrono all’aperture framing e alla presenza di ostruzioni tali da generare sotto-inquadrature che spesso comunicano molto di più di quanto i soggetti siano in grado di verbalizzare. Ad esempio, è proprio il logocentrismo, la pretesa di “verbalizzare” i propri sentimenti – dichiarando anziché dando prova del proprio amore – che porta Meiko a interrompere la relazione con Kazuaki.

Nell’universo di Hamaguchi immagine e parola trovano un equilibrio mirabile, tale che un pillow-shot ozuiano coesiste in armonia con un lungo piano sequenza parlato, girato all’interno di un abitacolo; uno zoom à la Hong Sang-soo che determina una «apertura d’irrealtà» (Ortega y Gasset 2018, p. 80) con una rappresentazione di una quotidianità priva di punti fuga; un momento imbarazzante apparentemente infinito con l’innesto di un multiverso spazio-temporale che scopre una dimensione morale nello spazio ipotetico – mimetico – dell’agire. All’analessi – alla verbalizzazione priva di visualizzazione – introdotta dal racconto dell’incontro galante della sua migliore amica, Meiko replicherà con la formalizzazione, con il suono di un otturatore fotografico che cattura il momento dell’ingresso dell’ex fidanzato, involontariamente conteso, nella sua memoria.

Così, la rigidità dei punti di vista e la nettezza dei dialoghi slitta sulle onnipresenti superfici riflettenti e sugli elementi d’arredo che separano un personaggio dall’altro, creando dei veri e propri piani impilati in cui la viscosità dell’immagine è la traccia della vertiginosa complessità del reale. In questo senso è il personaggio di Segawa, docente universitario di letteratura francese e romanziere insignito del premio Akutagawa (II episodio) a essere più teoreticamente consapevole della necessità della distanza, la sola attraverso la quale è possibile saggiare la compatibilità dei corpi (un bacio setacciato dal tessuto di una maglietta, l’uomo conteso che si arresta dinanzi alla vetrina di un locale) e le implicazioni di un loro eventuale avvicinamento.

Mentre “le parole chiedono parole” e ambiscono alla vicinanza ecfrastica tramite cui generare un piacere dalle ripercussioni carnali, le immagini pretendono invece la giusta distanza. Chiedono che le porte restino spalancate, affinché la magia – o qualcosa di meno rassicurante – possa continuare a mettere in comunicazione i mondi e le coincidenze portino, ancora una volta, a immaginare la concretezza di altre possibilità e di altre vite.

Riferimenti bibliografici
D. Ferrari, A. Pinotti, a cura di, La cornice. Storie, teorie, testi, Johan & Levi, Cremona 2018.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017.

Il gioco del destino e della fantasia. Regia: Ryûsuke Hamaguchi; sceneggiatura: Ryûsuke Hamaguchi; fotografia: Yukiko Iioka; montaggio: Ryûsuke Hamaguchi; scenografia: Seo Hyeon-Seon, Masato Nunobe; costumi: Fuminori Usui; suono: Akihiko Suzuki; interpreti: Kotone Furukawa, Kiyohiko Shibukawa, Fusako Urabe, Aoba Kawai, Ayumu Nakajima, Hyunri, Katsuki Mori, Shouma Kai; produzione: NEOPA, Fictive; distribuzione: Tucker Film; origine: Giappone; durata: 121′; anno: 2021.

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