Il frutto della tarda estate è un film che, sotto la sua apparente leggerezza e semplicità – di visione, come di lettura – nasconde in realtà delle sfumature complesse, se non problematiche, delle latenze che, sfociando solo in una rifrazione sintomatica sulla superficie dell’immagine, possono far scaturire, appena fuori dalla sala, dei dubbi su quel che realmente è successo in un’ora e mezzo sullo schermo, sia sul piano stilistico-rappresentativo che simbolico.

Dopo il suo precedente film documentario, Railway Men (2018), la regista Erige Sehiri posa lo sguardo ancora una volta sulla sua terra d’origine, componendo una liturgia del quotidiano che si àncora alla ciclicità della natura. Nel nord-ovest della Tunisia, in una landa tinteggiata dai colori malinconici di un’alba di fine estate, un gruppo di donne e pochi uomini, stretti nel retro di un furgone, iniziano la loro giornata lavorativa. Questo sarà il punto di inizio e anche quello di fine, al tramonto, del racconto. Nel mezzo il fluire della vita, un movimento perpetuo e delicato di gesti e di sguardi, che Sehiri restituisce con l’incedere di una macchina da presa somatica, che lascia trapelare un’attenzione analitica ai dettagli, un preciso interesse per le fisionomie dei suoi personaggi.

L’intera storia è ambientata all’interno di un frutteto, uno spazio che non funge solo da sfondo, ma è in grado di determinare le geometrie relazionali delle giovani protagoniste che, raccogliendo i fichi maturi per una misera paga, lavorano intrecciando paure e desideri contraddittori, a volte esplicitati dalle parole, altre volte solo racchiusi in dei micromovimenti, declinazioni emotive che passano dalla materialità di un corpo che pulsa, sente, esige.

Proprio nella prossimità ai corpi e ai volti, l’immagine sembra saturarsi di una pienezza di significato che in verità non fa altro che fagocitare ogni altrove, ogni lacuna, ogni vuoto, indispensabili per un rimando a quell’illimitatezza del mondo che eccede la formalizzazione filmica (De Gaetano 2018). Questo implica il rischio di una perversione nel rapporto con il reale, in particolare nella manifestazione di quella credenza che la realtà, anche quando ri-messa in scena, possa raccontarsi da sé. Probabilmente è una minaccia latente, non proprio esibita dal film, che in fondo tenta a buon diritto di denudare il racconto da ogni sostrato ideologico, compiendo quello spostamento verso la superficie dell’immagine.

Se da un lato la frustrazione dello spettatore potrebbe dunque derivare da una sfiducia nei confronti delle capacità del cinema osservativo di penetrare l’esteriorità del mondo fenomenico – diffidenza di lunga data, ascrivibile già alle prime critiche contro il cinéma vérité secondo cui «it was not enough for filmmakers […] to trust so implicitly in chance to gain an imaginative coherence» (Jacobs 1979, p. 378) – dall’altro si potrebbe riconoscere il peso simbolico della superficie, ovvero la sua profondità intrinseca. Si tratta in definitiva di accettare una nuova modalità di visione, nella riscoperta di una prassi fotogenica in cui i significati profondi dimorano sulla pelle dello schermo.

L’occhio dello spettatore, allora, si ritrova a “toccare” la ruvidità del terreno, la morbidezza del fico, così come i sapori o l’asprezza del sudore, indagando una superficie sinestetica che aspira a trasformare i fatti visivi del quotidiano in piccoli eventi dotati di una certa autonomia gnoseologica e dunque capaci di agganciarsi al flusso più ampio della Storia.

In questo divenire continuo – che, sarà bene ribadire, è il frutto di una messa in scena, nonostante un approccio naturalistico e quasi documentaristico, l’uso di attori non professionisti e una certa libertà della sceneggiatura – si snodano anche delle dinamiche affettive, delle relazioni di potere inter- e trans-generazionale. Anche in questo caso è ravvisabile una sovversione molto interessante. Sviscerando il racconto e riflettendo sulle configurazioni identitarie, infatti, quell’inno alla libertà femminile, così tanto evocato da molta critica e in parte anche presente negli intenti dell’autrice, sembra in realtà scaturire per opposizione, ovvero generato dalla rappresentazione di una vistosa crisi della mascolinità.

Già all’inizio del film, vediamo il caporale negare un posto di lavoro giornaliero ad un giovane ragazzo proprio perché incapace di impegnarsi duramente, rispetto anche alle donne più anziane del gruppo in partenza per il frutteto. E ancora più avanti, i gesti maldestri di un altro ragazzo, che in maniera indelicata spezza ripetutamente i rami del fico, saranno la causa del suo licenziamento. Gli altri due personaggi maschili maggiormente delineati, Abdou e Firas, sono entrambi portatori di una sorta di debolezza, una lamentosità che loro stessi esibiscono verbalmente, con degli effetti contrappuntistici che sfiorano il paradosso.

Ad un certo punto, per esempio, Abdou confessa alla sua ex ragazza, Melek, uno stato di malessere non proprio definito, ignaro però che la giovane donna è appena sfuggita dal tentato stupro del caporale. Il silenzio di Melek, dunque, che va via senza commentare, racchiude tutta l’inadeguatezza del soggetto maschile, incapace di leggere fino in fondo lo stato delle cose. Allo stesso modo, anche Firas è insofferente poiché si sente in trappola, avverte il peso soffocante delle rigide imposizioni della famiglia e della società in cui vive. Sentimento più che lecito, ma che implode se accostato alle difficoltà, e in particolare alle privazioni di libertà, sperimentate dalle donne all’interno della cultura tunisina.

Di fatto, le ragazze sembrano abitare, al contrario, una dimensione più affermativa, che però non si nutre solamente di un semplice vitalismo, ma a tratti assume i contorni della disillusione, se non perfino del cinismo. In Fide, il personaggio più forte, portavoce di un’autodeterminazione tanto sofferta quanto urlata, l’intimo desiderio di libertà sembra liquefarsi a contatto con una visione disincantata del mondo, e in particolare dell’amore. In un passaggio del film, che forse scivola via inosservato, la ragazza ripete ad Abdou di non volersi fidare di nessun uomo e ricorda, con un’espressione del volto che tradisce un sorriso amaro, le violenze subite dalle donne nei frutteti a causa dei loro capi.

La stessa Fide riconosce la natura violenta del caporale con cui sembra intrattenere una relazione intima, eppure con una leggerezza scioccante conclude ridendo: “Però è carino”, battendo il cinque ad Abdou, quasi vestendo momentaneamente i panni di un buddy, ovvero allineandosi e divenendo complice dei personaggi maschili. Anche in seguito farà sfoggio di un’indole rassegnata, quando disprezzerà il “cuore debole” della sorella ancora innamorata dell’ex fidanzato. Eppure alla fine del film, venuta a conoscenza del tentato stupro ai danni di Melek, non esiterà, con la stessa durezza, a inveire contro il capo, perfino minacciandolo.

Dunque, queste micro-traiettorie che tacitamente si dispiegano sulla superficie dell’immagine, innervandola di stratificazioni contraddittorie, compongono un ritratto mutevole, come mutevoli sono in fondo i desideri di un’età incerta e complessa come l’adolescenza, in tutta la sua durezza e fragilità.

Nel finale poetico e liberatorio, in cui le ragazze più giovani si truccano, si pettinano e si abbandonano quasi in modo dionisiaco ai canti popolari tunisini, aleggia una certa nostalgia. Forse è lo sguardo della regista che accarezza il suo stesso passato, o è il nostro sguardo, fermo su una superficie così porosa, incapace ancora di cogliere appieno tutta la vita che è trascorsa in un’ora e mezzo di film.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
L. Jacobs, Documentary Becomes Engaged and Vérité, in Id., a cura di, The Documentary Tradition, W. W. Norton & Company, New York 1979. 

Il frutto della tarda estate. Regia: Erige Sehiri; sceneggiatura: Peggy Hamann, Ghalia Lacroix, Erige Sehiri; fotografia: Frida Marzouk; montaggio: Ghalya Lacroix; musiche: Amin Bouhafa; interpreti: Abdelhak Mrabti, Fedi Ben Achour, Gaith Mendassi, Hneya Ben Elhedi Sbahi, Leila Ouhebi, Firas Amri, Fedi Ben Achour, Ameni Fdhili, Feten Fdhili, Fide Fdhili, Samar Sifi; produzione: Maneki Films, Akka Films, IGC (In Good Company) Films, Henia Production (TN); origine: Tunisia, Francia, Svizzera; durata: 90’; anno: 2022

Tags     realtà, Sehiri, Tunisia
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